Il 26 ottobre ho letto, a distanza di pochi minuti, Federico Rampini su “Repubblica” (“India, il paradiso dei giovani”, pag. 47) e Arundhati Roy sull’ “Internazionale” (“L’India brucia”, pag. 30, numero 715).
Due paesi diversi, i loro: l’uno, come é enunciato fin dal titolo, un paradiso di speranze che muove “all’ammirazione e all’incredulità”, l’altro un inferno sull’orlo della guerra civile, più simile al Darfur che a una democrazia consolidata in sessanta anni di storia. Nessuno dei due somiglia alla nazione in cui ho vissuto e in cui conto di tornare. Ma, ambedue i paesi immaginari sono costruiti con eleganza linguistica e coerenza logica nei cieli statici dell’ideologia.
Questo sì, è un segnale di quanto l’India stia diventando importante.
Come accadeva negli anni cinquanta e sessanta con gli Stati Uniti, dipinti, a seconda degli osservatori, come tutto il bene e tutto il male del mondo, anche l’Asia che cresce comincia ad avere, non solo i suoi analisti, ma anche i suoi ideologi.
Per Rampini il primo mantra da recitare è al Pil: in meno di venti anni avrà superato quello dell’intera area dell’euro e in trenta collocherà l’India nel club delle tre superpotenze, con la Cina e gli Stai Uniti. Il secondo è ai giovani che per quell’epoca avranno portato la popolazione a un miliardo e settecento milioni, cosa di cui Rampini grandemente si compiace, come se mai si fosse misurato con il livello di antropizzazione, inquinamento, squilibrio fra i sessi alla nascita, lavoro minorile e permanente malnutrizione di circa il quaranta per cento dei bambini indiani. Il terzo è a Infosys e ai grandi dell’informatica, che assumono i giovanissimi in posizioni di alta responsabilità e il cui top management ha un’età media di 27 anni: peccato che la più brillante azienda informatica del paese abbia assunto (più o meno come la sua gemella e concorrente Wipro) circa 66.000 lavoratori in tutto e che l’esercito delle forze di lavoro regolarmente censite in India (esclusi dunque i circa 30 milioni di bambini che lavorano illegalmente) sia di circa 400 milioni di persone. Gli altri mantra, se non fossero snocciolati un po’ piattamente, sarebbero tutti condivisibili da chi ama l’India: la vivacità del dibattito culturale, il gusto che permane della ricerca filosofica e e spirituale, la grazia e la mitezza delle persone, la struttura democratica dello stato e delle istituzioni, la mancanza di risentimenti anticoloniali, anzi il gusto della libertà, ma anche dell’amicizia fra pari, nel confronto con gli occidentali. Ottime ragioni per tifare India, insieme a Rampini, nella singolar tenzone con la Cina, modeste chiavi per interpretarne il futuro.
Arundhati Roy, invece, dipinge un paese sull’orlo della guerra civile, anzi di una guerra di classe aperta in cui “abbiamo cominciato mangiare le nostre stesse membra”, “viviamo una secessione verticale in cui la classe media divora il resto del paese e sottrae la terra ai poveri” e “sempre più persone scelgono le armi”. Nel concedersi i fasti dell’ira, Aundhati Roy mette insieme un puzzle bislacco con elementi che non hanno nessi. Sacrosanta la polemica contro lo strapotere della polizia e le esecuzioni sommarie, frutto di imboscate, contrabbandate come “encounters” ad armi pari con banditi e terroristi: l’India può anche raddoppiare il Pil ogni anno, ma se non tiene a bada la sua polizia, sadica, autoritaria, corrotta e umanamente disgustosa, non avrà le carte in regola per considerarsi una democrazia davvero degna di questo nome. Sacrosanta anche la preoccupazione
verso “L’Hindutva”, l’ideologia del fondamentalismo indù che, anche se non ha più la forza di dieci anni fa, continuare a fomentare odi e ad allungare la sua ombra cupa sulla pace interna e sulla serenità delle minoranze religiose. Attualissima la preoccupazione per l’aumento di valore delle aree fabbricabili e sfruttabili industrialmente (180 per cento a Chennai in un solo anno) e per la disinvoltura con cui i poveri vengono trasferiti e deportati senza indennizzi e senza piani urbanistici alternativi. Irresponsabile invece il contesto di “lotta al sistema” in cui tutto ciò viene collocato e
l’occhieggiamento ai guerriglieri naxaliti che controllano alcune aree in Bihar, in Andra Pradesh e in Orissa. “Sono gli unici a fare qualcosa e io li ammiro. Può darsi che quando arriveranno al potere si riveleranno brutali, ingiusti e autocratici, persino peggio dell’attuale governo. Se succederà dovremo combattere anche loro”- dichiara Arundhati al suo intervistatore. Io credo che, dopo Pol Pot e la rivoluzione culturale cinese, nessun intellettuale dovrebbe più consentirsi un simile miscuglio di nichilismo e di candore adolescenziale.
Stupirà, ma per aiutare me stessa e chi mi legge a capire qualcosa di vero, e dunque di inevitabilmente disordinato e complesso, sono ricorsa a “The Economist” che nel suo dossier, ancora molto attuale, del 3 giugno 2006, osa la modestia del punto di domanda: “Can India fly?”.
Bene, bene il Pil, ma – ci spiega il settimanale- solo 1.300.000 persone lavorano nel settore di punta dell’informatica e della telematica, solo 30 milioni, il 7% dei 400 milioni di lavoratori indiani, hanno un lavoro stabile, sindacalmente protetto, dignitosamente pagato. Gli altri sono appena un gradino sopra ai 260 milioni che sopravvivono con meno di un dollaro al giorno. In più solo il 61% degli indiani sono alfabetizzati, il che talvolta significa sapere poco più che scrivere il proprio nome, e l’istruzione media ed elevata è spesso così mediocre che la Nokia, che nei suoi stabilimenti in Tamil Nadu assume solo operai specializzati e tecnici con dodici anni di scolarizzazione, fa fatica a coprire gli organici. La vita delle campagne, quella del 70 per cento degli indiani, è ancora un mondo a parte: i mitici telefonini, che nelle metropoli sono usati dal 40 per cento dei cittadini, toccano il 2 per cento della popolazione.
Fin qui i dati, o meglio alcuni dei dati di cui il dossier é ricchissimo, del settimanale britannico. E con essi la domanda. In queste condizioni, “l’India può volare?”.
Io vorrei aggiungerne un ‘altra, cui premetto di non saper rispondere. Cosa vuol dire “volare”? Fuor di metafora, cosa vuol dire diventare un paese sviluppato? E’ sufficiente che un’ élite produttiva galleggi felicemente su un mare di esclusione e di sofferenza umana purché sia in grado di entrare in rapporto con altre élite sparse per il mondo che conta? E’ automatico, nel libero gioco dello sviluppo, che i benefici economici che questa élite conquista sui mercati internazionali ricadano sul paese nel suo insieme, oppure occorrono delle politiche economiche e industriali che consentano la redistribuzione delle ricchezza? E questo sforzo interessa davvero, è implicito nel concetto di democrazia, oppure può essere considerato naturale dall’opinione pubblica mondiale che un paese si
prepari a diventare la terza potenza industriale del mondo e contemporaneamente sfrutti il lavoro di trenta milioni di bambini?