«I rom sono una bomba inesplosa». Lo ha scritto Beppe Grillo il 5 ottobre nel suo blog, un post che ha richiamato una valanga di commenti, oggi alle 13.30 erano 3782. Molti entusiasti: «Ma volete finirla con il buonismo italianista», moltissimi delusi: «Ma ho letto bene, Grillo, sei proprio tu?». La bomba in verità è la rabbia, il furore incontrollato: «Una volta i confini della Patria erano sacri, i politici li hanno sconsacrati». Ecco qua, siamo alla Patria ferita, a quell’identità inafferrabile ma perfettamente riconoscibile solo quando è minacciata che è alla base del razzismo. Con i politici elevati al rango del persecutore. E i rom? Sono d’accordo con Gad Lerner, (“La caccia allo zingaro vi ricorda qualcosa?”Vanity Fair n.39 del 4 ottobre 2007), siamo allo stadio iniziale di un fenomeno di razzismo, che riguarda tutta la società. In questo senso Grillo ha ragione, si tratta di una bomba. Di cui lui accende l’innesco.
Quando anche nei salotti si formula il più inappellabile dei giudizi, “ma sono brutti, non c’è niente da fare“, nei nostri tempi in cui l’estetica ha sostituito l’etica. Quando nessuno si chiede chi siano quei muratori romeni che entrano nelle nostre case a fare lavori e lavoretti molto ben eseguiti a bassissimo prezzo, (vedi la bella inchiesta di Fabrizio Revelli “Gli zingari in fuga nella città nascosta”su Repubblica 5 ottobre).
Quando se provi a dire, dal parrucchiere o alle amiche pensose, «i rom sono come chiunque altro, vogliono una casa, un lavoro, una vita decente, siamo noi in Italia che ci ostiniamo a creare i campi nomadi, tra l’altro contro tutte le direttive europee» tutti ti saltano addosso per concludere: «Però rubano e sono odiosi con le donne», come se questo fosse definitivo e riguardasse tutti. Senza tenere conto, per esempio, che il patriarcato tradizionale dei gruppi rom è oggi in crisi, su pressione delle giovani donne, come dappertutto (vedi il bel video di Carlo Chiaramonte “Le donne vestivano gonne fiorite” prodotto da ArciLazio/DigitalDesk) e certo, se li obblighiamo nascondersi, a rinserrarsi nei clan non favoriamo il cambiamento, anzi.
Quando se insisti, e dici: «ma quanti pensate che siano, le stime più alte parlano di 150000», allora proprio come Grillo, viene invocata la nuova invasione romena.
Insomma, quando l’intera società italiana decide che una esigua minoranza è il nemico da allontanare a tutti costi, bisogna convincersi che siamo a una svolta pericolosa. L’ordine e la legalità, le parole d’ordine oggi così care a tutti -e tutte-, perfino l’esigenza di giustizia e onestà, hanno il colore rosso non della rivoluzione, ma della rabbia. E la rabbia, si sa, acceca.
Non solo quando si commettono individuali, privatissimi delitti, come quelli che seguiamo con passione in tv e sui giornali. Anche in politica.
Un paio di settimane fa abbiamo guardato con stupore i monaci birmani che sfilavano in silenzio e inermi contro la dittatura militare che opprime il loro paese. Come si può essere determinati, forti, guidare una rivolta da non violenti? Come non prendere una pietra, non alzare il pugno per la rabbia? Come resistere anche di fronte morte violenta (è dell’ultima ora la foto di un monaco schiacciato da un camion) che del resto i monaci si aspettavano?
Chissà che succederebbe se qualcuno si decidesse ad ascoltare, e praticare, quanto ha proposto il maestro zen Thich Nath Hanh agli americani dopo il settembre 2001: «L’America sta soffrendo molto. Il destino di una nazione è troppo importante per essere lasciato in mano ai politici. Servono persone capaci di ascoltare con tutto il cuore, in quanto esseri umani, prima ancora che in quanto politici, dobbiamo scegliere capi che sappiano ascoltare …persone che non fanno politica per professione che conoscono da vicino la sofferenza e la comprendono…».
Criticare la politica , e agire, in nome della consapevolezza. Altro che rabbia, ma accogliere e governare i conflitti. Una strada troppo difficile? O si pensa che sia adatta solo alle guerre?