La geografia è questione di corpi. È l’idea che guida Ursula Biemann, video artista e curatrice svizzera che ha partecipato a Roma all’edizione 2007 del Tekfestival, Ai confini del mondo…dentro l’Occidente, rassegna di cinema sociale ed indipendente giunta alla sua sesta edizione. La geografia è questione soprattutto di quei corpi il cui movimento fa la differenza: corpi di donna. Sono infatti donne le protagoniste (quasi) assolute delle sue ricognizioni nelle pieghe della globalizzazione. Biemann, che rifugge sia dagli stereotipi ipnotici dei migranti vittime delle tragedie della disperazione che dal voyeurismo strumentale, interpreta invece le migrazioni come transito ed estrae una serie di viste su ciò che avviene tra (in-between): tra le identità e le materialità, tra le soggettività e i poteri, tra i corpi e i territori. Nei lavori presentati a Roma emergono paesaggi inesplorati, complessi: spazi specifici prodotti dai gesti di corpi specifici.
In Europlex (20 minuti, 2003) le donne marocchine che contrabbandano indumenti ricoprono i loro corpi di vari strati di abbigliamento, prima di attraversare i check-points di frontiera, e così facendo vestono il confine, lo indossano, almeno per il tempo necessario a superarlo.
In Performing the border (45 minuti, 1999) le lavoratrici messicane impiegano ore di cammino a piedi e su autobus privati dalle tariffe esorbitanti per raggiungere le maquiladoras (gli stabilimenti industriali ammassati a ridosso del confine con gli Stati Uniti) in cui lavorano: si spostano all’alba dagli insediamenti nel deserto verso la zona industriale dove assembleranno dispositivi tecnologici pensati per semplificare ed accelerare i gesti delle nostre vite, mentre, paradossalmente, le loro vite sono costrette alla lentezza.
Queste sono solo alcune delle pratiche ambivalenti che Ursula Biemann ha individuato per le sue cartografie. Come lei stessa sintetizza: «Non ci sarebbe un confine senza qualcuno che lo attraversa ripetutamente. Ci sarebbe solo una linea, un fiume o un muro ma serve un movimento di persone per farne un confine». Una delle questioni più efficacemente sollevate dal suo lavoro è proprio quella della rappresentazione di ciò che avviene nello spazio: come produrre una rappresentazione del confine, ad esempio, che sia insieme linea e movimento?
La globalizzazione del capitale e la virtualizzazione delle comunicazioni hanno complicato l’uso di categorie spaziali come “appartenenza“, a favore di altre come “localizzazione“. Un corpo non appartiene a un solo luogo, piuttosto sta su vari livelli sia spaziali che relazionali. I luoghi passano dai corpi, i corpi trasportano i luoghi, non il contrario. Di conseguenza la geografia, intesa come sistema di rappresentazione dello spazio umano, cosa diventa? In che modo può sintetizzare il complesso stare al mondo? che tipo di orientamento può fornire? Quale estetica e quale mezzo le si addicono?
Nell’opera di Ursula Biemann si si trova una risposta a queste domande. Nei suoi video-saggi, come lei stessa li definisce, tra il documentario e la video arte, opere in transito, allo stesso tempo artistiche, teoretiche e politiche, concepiti spesso con studiosi di altre discipline, Biemann compone quelle che chiama contro-geografie. Opere che rappresentano conflitti, negoziazioni, scambi in atto, invece di perimetri, nomi e campi di colore che dei conflitti e degli scambi sono la cristallizzazione.
Ad esempio, in Agadez chronicle (2006), video-installazione dedicata alle migrazioni transahariane verso l’Europa, il deserto non è una generica area di transito, ma, più precisamente, uno spazio specifico generato da diverse strategie che si confrontano sul tema del movimento. La strategia militare, zenitale, del tele-rilevamento degli aerei senza pilota. La strategia ribelle dei Tuareg che guidano i migranti lungo percorsi di cui essi soli custodiscono la memoria. La strategia coloniale, rintracciabile ancora nelle diaspore dei senza terra e nell’assenza di collegamenti tra il nord e il sud del continente africano.
Analogamente la Free Trade Zone (zona di libero commercio) messicana di Performing the border ha una specifica caratterizzazione di genere, in ragione della femminilizzazione della manodopera industriale, composta per lo più da giovani donne sole emigrate da tutta l’America Centrale. L’allontanamento dalla società patriarcale e la rinegoziazione del maschile e del femminile hanno dato luogo a società femminili inedite, trasgressive e poco indagate, che, ad esempio, abitano i bordi delle città in baracche di cartone costruite da mani di donna, o che consumano prodotti culturali, spettacoli e canzoni, che si riferiscono esplicitamente a desideri sessuali femminili separati dalla sfera affettiva e riproduttiva.
D’altro canto, la Biemann rileva come le donne del sud del mondo, qui come altrove, siano interpellate dal capitale non tanto nella loro femminilità, quanto nella loro sessualità: il capitale trae profitto dal fatto che queste donne possono integrare i miseri salari attraverso la prostituzione; di conseguenza, il confine è un territorio sessualizzato. La femminilizzazione del confine torna, di nuovo, in Europlex in cui i circuiti quotidiani delle donne marocchine si avvolgono intorno al perimetro circolare delle enclaves spagnole di Ceuta e Melilla, con ritmi stranianti. Le domesticas attraversano due fusi orari diversi, che, a distanza di pochi chilometri, accelerano, anticipano e ritardano di due ore il loro tempo di lavoro, diviso tra due case separate dalla frontiera.
I lavori di Ursula Biemann non sono solo analitici, ma anche evocativi e coinvolgenti, ed elaborano immaginari. Sullo schermo interviste, dati, analisi intrecciano immagini satellitari in Real Time, riprese video, registrazioni dei circuiti di sorveglianza su musiche magnetiche, sonori manipolati o voci off, mentre i testi-guida, asciutti e brevissimi, letti da una voce femminile, fanno ordine, scandiscono il procedere del discorso, distanziano i livelli. L’esempio forse più riuscito della composizione compressa della Biemann è il bellissimo e breve video-saggio Writing desire (25 minuti, 2000), notturno e metallico, in cui le voci di alcune studiose, tra cui la filosofa Rosi Braidotti, ci fanno strada nel territorio sintetico di internet, ci parlano della sublimazione del desiderio femminile attraverso la scrittura affidata alla rete, di spose cibernetiche disincarnate, del corpo come zona contesa.