Sono entrata in relazione con Alice Ceresa, al romano Circolo della Rosa. Non è che Alice volesse discutere al Virginia Woolf, luogo della politica femminista collocato sullo stesso pianerottolo del Circolo della Rosa. Lei intendeva godersi gli incontri serali con le donne. Sedeva silenziosa su un divanetto, e si guardava intorno seguendo, con il suo sguardo sorprendente, divertito, i corpi delle altre. Sembrava alle prese con una riflessione ininterrotta, quasi fosse in attesa della vita a venire.
Ci fu una stringente vicinanza tra i nostri rituali di allora e la sua scrittura. Un corpo a corpo che ritrovo nel “Piccolo dizionario dell’inuguaglianza femminile“ (a cura di Tatiana Crivelli, postfazione di Jacqueline Risset, nottetempo, 12.00 euro). Proverò a descriverlo seguendo alcune delle voci che più mi hanno colpita.
Fustigatrice di un certo modo di intendere la femminilità, quella delle “tette e natiche“, lei arrivava con i pantaloni larghi sul sedere, i maglioni da montanaro, con i capelli tagliati cortissimi, fumando di continuo.
Vedeva bene che la donna, perlomeno fino a una certa data, è stata il prodotto di un ordine simbolico maschile-patriarcale. E dunque alla voce Femminilità scrive: “somma delle qualità che derivano dall’essere grammaticalmente subordinati. Le qualità spirituali della femminilità sono pertanto l’arrendevolezza e la soppressione grammaticale del femminile in favore del predominio dell’articolo maschile“.
In definitiva, riassume “è femminile tutto ciò che viene considerato devianza dal maschile“: la capacità femminile di tessere delle relazioni, di governare la propria e l’altrui sessualità (un sì è un sì e un no un no), di dare importanza al privato, ai sentimenti, di volere un lavoro ma anche del tempo per sé viene considerata devianza. Almeno fino a quando reggerà il modello proposto dagli uomini, del “maschile come valore“.
I violenti strozzamenti del corpo, lo stare a temperature sotto zero a gambe nude, le limitazioni di movimento per via dei tacchi dello scarparo Manolo Blahnik, un campionario infinito di crudeltà inflitte al sesso femminile, sono proposte maschili. “Le donne, in quanto prodotto culturale, finiscono per scegliere la moda solo entro una serie di proposte maschili“.
Eravamo dentro un ordine patriarcale ferreo, deciso a tenere le donne in stato di subordinazione. Subordinazione per cui non è ammesso un cuore virile (come lo aveva Alice) dentro un corpo femminile. Quell’ordine simbolico ha sempre avuto tra le frecce del suo arco la famiglia.
Alice scrive: “La vera e autentica famiglia è quella che decorre dal vincolo matrimoniale, genera cittadini, amministra le teste per conto dello stato e introduce l’esercizio dell’autorità patriarcale nella sfera riproduttiva degli individui umani“. Secondo me, per la manifestazione di piazza san Giovanni di sabato scorso, avrebbe recitato quella definizione.
Così come, ascoltando le parole di alcune femministe cattoliche che legano la differenza femminile al dato biologico di un corpo che si divide in due, la sua conclusione sarebbe stata che sì “Madre è solo quella della quale testimonia il riprodotto“.
Lei, per desacralizzare le descrizioni enfatiche della maternità (d’altronde era molto legata ad alcuni scrittori da Giorgio Manganelli a Nanni Balestrini a Alfredo Giuliani, che hanno guardato al mondo con una buona dose di insolenza linguistica) commenta: “I figli sono l’unico prodotto umano che non rientri nelle leggi del mercato. Non vi è infatti prezzo per la vita umana. La vita non ha prezzo. Questa è anche la ragione per cui le donne per figliare non vengono pagate“.
Per la verità, molto da allora è cambiato. Con la tecnologia, la bioetica, con le manipolazioni faustiane della scienza. Adesso succede persino che le donne per mettere al mondo dei figli non loro, vengono pagate.
Per tornare a come era lei, in quanto scrittrice, mi sembra che escludesse qualsiasi forma di ammiccamento, civetteria, narcisismo. Piuttosto, giudicava suo dovere civile e letterario e umano non fermarsi alla superficie. Senza offrire di sé una versione gratificante, imprigionata nel culto d’autore. Non aveva in simpatia gli ingegneri delle anime. Ma capiva perfettamente che “il personaggio letterario femminile parla e agisce per bocche e menti maschili. Nei casi migliori va considerato un travestito“.
Per quello che ha pensato e per come lo ha messo in parole, Alice è risultata una scrittrice “difficile“. Soprattutto, nelle vetrine (la cosiddetta terza pagina) dove forte è la carnevalizzazione (Umberto Eco) della cultura e le anticipazioni sostituiscono la critica, le interviste prendono lo spazio delle riflessioni.
Sulle femministe nel Piccolo Dizionario ci sono giudizi precisi. Non la convincevano le militanti che pensano di dover spaccare la mela a metà per essere risarcite delle ingiustizie. Occorre, innanzitutto, fare il giro delle radici dell’albero dell’inuguaglianza: “Anzi ti dirò che la mancanza di questo giro d’orizzonte è la maggior debolezza delle femministe“.
Citava le manovre dell’inclusione perché “tanto vedrai come andrà a finire: che ci permetteranno di ottenere certe cosette (che fanno comodo anche a loro) ma guai a chi tocca alle sante istituzioni“.
Quando dichiara che “di femminile la Svizzera ha soltanto il nome“ viene fuori un elemento portante della sua opera di Alice, che è l’ironia. In effetti, secondo il filosofo francese Jankélévitch l’ironia è capace di rimettere tutto in questione. Mentre distrugge la pedanteria, sa fornirci una mirabile lezione di umiltà, di sobrietà e di diffidenza. In fondo, l’ironia realizza (ancora Jankélévitch) la coincidenza degli opposti come la musica romantica che confonde il Notturno, la Ballata, lo Scherzo nel caos e nella disinvoltura della Fantasia (pensiamo a Chopin, Schumann, Liszt).
In fondo, le voci del Piccolo Dizionario, in uno stringato miracolo di equilibrio, tengono insieme tragicità e ironia, che sono proprie dell’esistenza delle donne. Così mostrando, se ce ne fosse bisogno, quanto grande sia stata la vicinanza di Alice all’esistenza femminile.
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