Povero settore pubblico britannico. Adesso due provvedimenti sulla parità tra uomini e donne, mettono in questione gli stipendi maschili. A loro, al sesso forte, tagli fino al quaranta per cento degli stipendi. All’altra metà del cielo, fino al 40 % in più.
Può apparire una stravaganza anglosassone. Però il divario tra i due sessi c’è. E forte. Si chiama “discriminazione di genere“. In Italia una donna che lavora prende circa il sette per cento in meno del suo collega. A parità di carica, ai livelli più alti, una donna guadagna tra il 20 e il 30 per cento in meno. In Parlamento, l’Italia si colloca al 47esimo posto quanto alla presenza delle donne.
Barbara Pollastrini, ministro per i diritti e le Pari Opportunità invoca “regole mirate e transitorie per la parità d’accesso e l’eguaglianza“. In Spagna, il governo Zapatero ha appena approvato un progetto di legge per l’effettiva parità allargato a tutta la società. In Francia le quote hanno reso i Comuni un po’ più rosa. Tuttavia, l’Assemblea continua a essere abitata da una prevalenza grandissima di maschi.
E però le cose cambiano. Per la prima volta nella storia della Lega Araba (19esimo vertice a Riad della fine dello scorso marzo), una donna ha preso la parola davanti ai capi di stato per discutere un’offerta di pace a Israele: si chiama Haya Rashid Al-Khalifa, del Barhein, attuale presidente dell’assemblea generale Onu. Per la prima volta una donna, Mona Sahlin, diventa la presidente del Partito socialdemocratico svedese: un grandissimo partito che vede la femminilizzazione dei suoi vertici. Infine – ma non vi sembri un esempio risibile – si parla della possibilità per le signore, dopo 82 anni di porte chiuse in faccia, di accedere a un circolo che è sempre stato rigorosamente maschile, come il Posillipo di Napoli.
Ho scritto che le cose cambiano in un eccesso di ottimismo?
Certo, nei casi citati, puntualmente riportati dalla stampa, non è tanto in gioco la parità quanto la voglia di competere, l’ambizione, il protagonismo femminile. Ci basta questo? Lia Cigarini e Luisa Muraro sull’ultimo Via Dogana sostengono, riferendosi al “caso“ Milano, dove molte donne sono entrate nella roccaforte del potere, che la città non se n’è accorta. Queste donne sono state semplicemente incluse. La parità mette tutti e tutte tranquille. Siamo arrivate lì dove prima erano loro, i maschi che agitavano il monopolio del potere. Adesso parliamo il loro linguaggio. E tanto ci basti.
I ministeri delle Pari opportunità, le commissioni che ormai fioriscono a livello europeo fin nei più piccoli centri urbani, puntano sulla parità, sui diritti delle donne. Il rischio sta nella produzione di leggi e leggine che annulla o nasconde o neutralizza la differenza dei sessi. La stella della “parità“ brilla sempre più fulgida mentre scompare quella dell’eguaglianza. In questo modo, però, secondo il sociologo Zigmunt Bauman, dimentichiamo il permanere della disuguaglianza economica e sociale.
Ora, nella storia delle donne, la disuguaglianza è dipesa (e dipende) dalla dissimetria dei corpi sessuati. Per loro, per ognuna di noi, la soluzione non sta in un di più di diritti, o togliendo ai maschi (inglesi) il 40 per cento del loro stipendio. E neppure nell’affermazione di quel femminismo (Lucetta Scaraffia, vicepresidente del Comitato Scienza&Vita, Eugenia Roccella, portavoce del “Family Day”) che inchioda il corpo femminile alla sua capacità di riprodursi. No, credo che le donne meritino una lettura meno biologica del loro essere un soggetto diverso ma in relazione con quello maschile.