Pubblicato il 15 novembre sul sito del “Centro per la riforma dello Stato” (Crs)
Il 16 ottobre scorso il Senato della Repubblica ha approvato la legge Varchi che rafforza il divieto della gestazione per altri rendendola illegale anche all’estero. Lo rafforza scoraggiando le coppie che si recheranno all’estero per inseguire il desiderio di un bambino e che saranno punite (o perseguite?) secondo la legge italiana.
Bisogna però ricordare che la separazione tra la donna che porta avanti la gestazione e il parto per conto di chi acquisirà la responsabilità genitoriale, era già punita in Italia dall’art. 12 della l. 40/2004.
Dunque, questo ennesimo esempio di arroganza giudiziaria – nessuna meraviglia dal momento che il clima autoritario sta invadendo il mondo e in Italia, in due anni, il Governo ha seminato 48 nuovi reati – mette una pietra tombale sulla discussione tra femministe che pur in modo sbilenco, tra spaccature e incomprensioni, si era dipanata intorno alla bioetica, maternità, sistemi valoriali.
Materie già in qualche modo trattate, sgraziatamente, nel 2005, con il referendum sulla fecondazione assistita (legge 40). Due anni dopo, con un taglio profondamente diverso, esce il libro di Diotima L’ombra della madre che illumina l’inquietante rapporto con la potenza materna.
Invece la discussione sulla gpa tra femministe da subito si snoda nei termini di una battaglia.
Per alcune si tratta di una pratica disumana che alimenta un mercato transnazionale sfruttando il corpo delle donne; corpo che invece va protetto e difeso. Per altre è importante la soggettività femminile, la spinta alla solidarietà, l’ampliarsi degli attori costruttori di una famiglia diversa, meno chiusa, più generosa, la voglia di genitorialità.
Lo schieramento contro la gpa esclude quella “socializzazione della maternità” di cui parla Giulia Siviero nel libro Fare femminismo (nottetempo, 2024). Altruismo, dono, disponibilità non sono contemplati; il corpo femminile non si utilizza come un ricettacolo e il bambino non è una merce da scambiare.
“Il reato universale” di maternità surrogata se – scrive l’avvocato penalista Gian Domenico Caiazza (sul Riformista di sabato 8 novembre) – ci mette di fronte “alla inutile sceneggiata di una riforma che non riforma (per fortuna, aggiungo) un bel nulla”, è sostenuto da uno schieramento compatto e militarizzato di femministe contro la gpa mentre le pro gpa si dispongono in modo disordinato con alcune punte neo-dada (un gruppo di NUDM cita le “persone con utero”).
La gestazione per altri è un problema così intricato e spinoso, che avendo ripercussioni sia in campo etico che biologico sarebbe stato opportuno non tranciare di netto.
In effetti, prevede che più attori salgano a occupare la scena, con una moltiplicazione dei protagonisti: la coppia di aspiranti genitori (per la stragrande maggioranza eterosessuali); colei che per loro porta avanti la gestazione e il parto, il/la bambino/a; una costellazione famigliare che gli gira intorno.
Guardate A Body that Works, la serie israeliana su Netflix circa gli alti e i bassi di una relazione allargata, e sulle contraddizioni insite nella pratica della gpa attraverso la psicologia dei protagonisti.
Se la legge israeliana accetta controllandolo il passaggio di denaro alla madre surrogata, in altre latitudini le agenzie e le cliniche lucrano sul corpo femminile e sul bambino come merce scambiata al mercato.
In Donna si nasce (e qualche volta lo si diventa) (Mondadori, 2024) Adriana Cavarero e Olivia Guaraldo fanno discendere la loro contrarietà alla gestazione per altri dalla capacità femminile di generare e la differenza femminile in quanto sesso che genera. Ma sarà saggio un pensiero della differenza così irrigidito e incentrato sul biologico da provocare divergenze a non finire tra femministe della differenza e movimenti LGBTQ+? E all’opposto, non c’è qualcosa nel pensiero della differenza – accusato delle peggio cose da una parte del nuovo femminismo – che vale la pena di essere difeso e rilanciato?
Ragionando della moltiplicazione degli attori sulla scena, la donna che porta avanti la gestazione e il parto a qualsiasi latitudine – India, Grecia, Ucraina, California – diventa una vittima muta, costretta a separarsi dal bambino che ha portato in grembo per nove mesi. È sempre così? Non può avvalersi della soggettività questa donna?
Quanto all’uomo, pur avendo un ruolo – diciamo – con una sua importanza, rimane sullo sfondo. In un angolo buio del palcoscenico. Dal silenzio (con qualche eccezione come quella di Adriano Sofri negli articoli scritti per il Foglio) cosa dobbiamo dedurre, che la paternità non è un problema del sesso maschile?
Altro protagonista, troppo speso dimenticato, il bambino/a che deve essere amato/a. “Ogni bambino ha bisogno di un padre e una madre” (la premier Giorgia Meloni). Ma sono necessariamente i legami di sangue a testimoniare di questo amore?
E in questo straparlare di diritti esiste anche un diritto di sapere come e grazie a chi – per colpa di chi – è venuto al mondo?
I legami possono essere perversi e violenti. “Che il figlio fosse considerato scrittore scrivendo di lei le era sufficiente per inorgoglirla. E se lo avesse fatto dicendone male, questo non la toccava per nulla. Ho capito che questa era la sua forma d’amore. Una forma sbagliata, ma temo che tutti gli amori siano in qualche modo sbagliati”, scrive della sua pazza madre Antonio Franchini nel Fuoco che ti porti dentro (Marsilio Editori, 2024).
Comunque, e questo è particolarmente bizzarro, la criminalizzazione insita nel “reato universale”, sembra sia stata pensata soprattutto per i due maschi con neonato in braccio fermi al gate dell’aeroporto.
La punizione (da tre mesi a due anni di carcere e multa da 600.000 a un milione di euro per la legge Varchi), assecondando le concezioni della destra, contrappone alla loro aspirazione genitoriale il ritratto di famiglia delle vecchie fotografie che deve tornare a comprendere il padre (in piedi) la madre (seduta) e il bambino nelle sue braccia.
E però. Il desiderio di avere un bambino è insieme estremo e oscillante. A partire da me che l’ho voluto, ma che per non averne altri mi sono avvalsa della 194, è abbastanza chiaro quanti e diversi, razionali, irrazionali, amorosi o stupidi sentimenti siano alla base di queste scelte.
Ne elenco qualcuno confusamente: capita di restare incinta; per la società, se non sei madre, non sei donna; lo fai per lui, il padre; per rappattumare il rapporto con lui, sempre il padre; per un progetto di futuro; perché, se non ti sbrighi ti chiameranno “primipara attempata”; per provare la tua potenza nel generare; per allegria…
Immagino che qualcosa di simile e di così “variegato” accada pure nella testa di chi non può avere figli ma li desidera. L’aspirante genitore dovrebbe sapere dove fermare l’asticella che pone un limite al desiderio. Tuttavia, in una società così individualista, la rinuncia (strada sempre possibile) ho paura sia considerata un sentimento anacronistico.
Comunque, con la legge Varchi non c’è psicologia, non c’è desiderio che tenga. E dal momento che al peggio non c’è mai fine, le critiche, che pure andrebbero prese in considerazione, delle femministe contro la gpa finiscono nel calderone agitato dalla destra omofoba e transfobica.
Quanto a me, alla mia posizione indecidibile, esitante di fronte a un campo così pieno di interrogativi, dubbi e violenze linguistiche, ancora mi piacerebbe un confronto più aperto e piuttosto che una legge proibizionista. Da quelle che fanno discendere la loro contrarietà alla gestazione per altri dalla capacità femminile di generare e dalla differenza femminile in quanto sesso che genera, vorrei una risposta mite, capace di regolare la gpa, di non cancellare la madre gestante, di riconoscere lo status di genitore a quello intenzionale, di allargare le adozioni e l’affido alle coppie omosessuali. Non ditemi che chiedo troppo! Questo è il minimo sindacale per un Governo che sia realmente interessato ai bambini e non all’ideologia.