Pubblicato sul manifesto il 27 agosto 2024 –
«Grazie ai media e alla stessa società civile israeliani conosciamo le gravi responsabilità di cui si stanno macchiando l’esercito e il governo di quel paese. Così come ci giungono le voci di pace che si alzano dalla società palestinese nonostante la terribile violenza che sta subendo. Chi ama questi due popoli ed ama la pace, deve offrire loro un riferimento solidale ed esigente per contrastare le derive violente e gli opposti integralismi e costruire una prospettiva di pace (…) proprio perché crediamo che gli orrori che l’Europa ha conosciuto non debbano ripetersi mai più, non ci interessa paragonare massacri e genocidi ma, certamente, non vogliamo ripetere l’ipocrita silenzio che ignorò la barbarie che cresceva nelle nostre società (…) La prospettiva di una guerra globale, distruttiva e terribile è sempre più concreta e la reazione delle forze politiche e sociali si mostra, come in passato, gravemente inadeguata».
Cito questo passaggio di una petizione proposta da un amico, Stefano Ciccone, e altre amiche e amici con lui, che ho sottoscritto non senza qualche dubbio sull’utilità di un nuovo appello, dopo i tanti che molte persone di buona volontà hanno diffuso da quando, dopo l’attacco di Hamas, la lunga guerra tra israeliani e palestinesi si è riaccesa nel modo più tremendo.
Ma è giusto, come fa la petizione (il testo e la possibilità di sottoscriverlo è su Change.org), rivolgersi a chi dirige partiti, sindacati, realtà dell’associazionismo, chiedendo un impegno molto più forte contro la guerra. Aggiungerei chi dirige media e istituzioni culturali: si potrebbe fare certamente qualcosa di meglio per offrire sponde a una presa di parola pubblica oltre gli schieramenti “parabellici” di chi vede il torto o la ragione solo in una delle parti in causa.
Della deriva militarizzata dei discorsi che ci attraversano, specialmente sui social a portata di mano sui cellulari, ho discusso con un altro amico che ha firmato questo testo. Mi ha colpito una delle sue osservazioni. “Certo sono contro la guerra. Ora mi chiedo, tra tanti interrogativi, perché da molti anni non riesco a fare la pace con mio padre?”.
A portata di mano, come i cellulari, ma assai più ingombrante, è la possibilità di fare i conti, intanto, con le nostre guerre personali. Con le disposizioni più o meno inconsce a trarre godimento nello schierarsi contro chi ci piace considerare il peggiore nemico da battere, da umiliare. O da cui difendersi fino all’estremo perché ci incute paure oscure.
Un passaggio necessario per provare a confliggere – pace non significa rinuncia al conflitto, anzi! – senza il desiderio di eliminare materialmente o simbolicamente il nemico?
Le firme, in pochi giorni, arrivano a centinaia. Facciamo sì che la voglia di reagire – oltre a smuovere la politica – ci faccia cercare e trovare le parole che ancora mancano per avere ragione sul piacere della contrapposizione e della violenza. In dialogo con chi ha a cuore la causa e la vita dei palestinesi e insieme degli ebrei, a Gaza e a Tel Aviv come in tutto il mondo.
Penso alle amiche e gli amici che proprio su questo giornale hanno portato il punto di vista di ebree e ebrei ben lontano da quello di chi oggi governa in Israele («Mai indifferenti», appello di voci ebraiche per la pace https://ilmanifesto.it/mai-indifferenti-appello-di-voci-ebraiche-per-la-pace)