Questo scritto vorrebbe ragionare di politica (di politica delle donne il che non esclude gli uomini), a partire dal lavoro, anzi a partire dall’idea che il lavoro sia lo spazio pubblico per eccellenza. La vera polis. Io non mi fermerò ad argomentare pro o contro questa idea, poiché la dò per ben chiarita da Marisa Forcina nell’articolo pubblicato in questa stessa rivista. Di conseguenza parto dal considerare un cambiamento avvenuto nel lavoro, da registrare come un vero grande cambiamento: quando parliamo del lavoro delle donne, oggi, parliamo di lavoro in generale, di tutti, uomini e donne, senza specificazioni. Ciò significa che l’occasionalità e la marginalità che hanno caratterizzato il lavoro femminile in passato sono scomparse. La maggioranza delle donne è sul mercato del lavoro. La loro presenza è considerata un fatto stabile e una realtà ovvia che non si giustifica più come un mero lavoro integrativo del reddito familiare. Ciò cui stiamo assistendo detto in negativo è un forte indebolimento dell’antica divisione tra sfera produttiva (maschile) e sfera riproduttiva (femminile). Tra le conseguenze, una di carattere squisitamente qualitativo ha attirato da subito la attenzione degli studiosi più avvertiti, vale a dire che soggettività e relazione, passione e affettività, connotati tradizionali della sfera privata e riproduttiva dell’esistenza umana, sono diventate risorse fondamentali nel mondo del lavoro oggi 1).
Questo è avvenuto certo per fattori oggettivi: la recente grande presenza quantitativa delle donne nel mercato del lavoro, la rivoluzione tecnologica e per finire il fatto che le donne stanno entrando in tutti i settori di lavoro e, in particolare, in quelli a veloce evoluzione, terziario avanzato e servizi, nei quali non è implicata la forza fisica ma l’uso di competenza professionale (le giovani donne sono più scolarizzate degli uomini), di capacità relazionale e comunicativa, saperi indubbiamente preziosi nel nuovo modo di produzione dominato dalla informazione e dalla comunicazione. Ma soprattutto questo è avvenuto per il fatto, tutto politico, che negli ultimi trent’anni le donne sono state in movimento, vale a dire hanno preso coscienza che l’essere donna non è un meno ma apre potenzialità al proprio essere. Al movimento femminista si è risposto da parte della sinistra enfatizzando la condizione svantaggiata delle donne e fissando l’obbiettivo della parità con gli uomini e non offrendo un’interlucuzione che fosse all’altezza delle nuove proposte. Da qui una visione impoverita del movimento delle donne.
Con il suo ultimo libro 2) Alain Touraine ha fatto giustizia di questa veduta facendo delle donne non le destinatarie di politiche paritarie ma i soggetti attivi e pensanti della politica per il nostro tempo: «le donne come attrici collettive creano la posta in gioco e il campo culturale del conflitto con altri attori sociali […], in altre parole costruiscono se stesse riparando ciò che è stato smembrato dalla globalizzazione, dall’esposizione alla deriva delle forze del mercato». A mio parere Touraine accorcia un po’ troppo le prospettive: io so che i tempi per le donne saranno lunghi per acquisire proprie autonome forme di lotta nel mondo del lavoro. Tuttavia egli ha il merito di sottolineare che il punto di vista delle donne nell’agire politico è radicalmente differente dal paradigma politico in corso.
Lavoro e differenza
La stessa particolare sofferenza delle donne a causa della rigidità dell’organizzazione del lavoro e dell’impresa, mette oggi più cose in gioco e in movimento di quanto non esprima ormai la categoria di sfruttamento economico che pure esiste. Faccio un esempio: le donne sono letteralmente fatte a pezzi dai tempi del lavoro fuori casa e del lavoro di cura. Ciò da una parte le costringe a interrogarsi sulla percezione di tempo e spazio, sulle aspettative di vita, sulla percezione del denaro e sul senso del la-voro; dall’altra parte il fatto che le donne portino al mercato le relazioni di cura rende visibile ciò che eccede il profitto e quindi rende possibile l’inizio di un cambiamento dell’organizzazione del lavoro. E mette in discussione le forme di lotta e di organizzazione maschile.
Si tratta infatti di bisogni molto differenziati, difficili da esprimere nell’assemblea sindacale, e per la loro varietà non sono sintetizzabili nella contrattazione collettiva. So che è difficile comunque negoziare sull’organizzazione del lavoro nell’impresa, ma in questo momento ci si può almeno impegnare e lottare per una cultura (teoria) del lavoro che non trascuri le differenze e le valuti per se stesse: sono libertà per la singola donna e il singolo uomo e sono contributo alla civiltà.
A questo punto voglio precisare che il parziale superamento della divisione tra sfera produttiva e sfera riproduttiva non ha annullato lo specifico legame che le donne hanno con la vita e con il lavoro di cura. Esse studiano con passione e vogliono lavorare restando tuttavia legate al simbolico e alle pratiche della riproduzione dell’esistenza umana. Un gruppo di giovani donne, interrogate sulle loro priorità tra lavoro fuori casa e lavoro di cura, hanno risposto rifiutandosi di fissare alcuna priorità. Questa risposta è citata come un esempio di ambivalenza, ma io credo che si possa anzi si debba leggerla altrimenti: come un doppio sì al lavoro e alla maternità, e cioè come l’affermazione di un altro modo di pensare il lavoro. Ecco perché sostengo che il lavoro con impronta femminile ha un significato più ampio e più profondo di quello pensato dagli uomini, o, per meglio dire, è, nel suo fondamento, lavoro come congiungimento tra produzione e riproduzione. Ed ecco perché anche nel lavoro, oltre che nella sessualità, la proposta di pratica politica delle donne è così radicalmente diversa da quella maschile.
È una politica che si appoggia sulle forme di vita: pensiamo al femminismo degli anni Sessanta e Settanta, che ha teso a modificare la relazione tra donna e uomo, relazione che è una forma di vita, forse la principale. E per ottenere questa modificazione ha usato come leva la narrazione che le donne hanno fatto della loro esperienza anche la più intima, esperienza e sapere che non avevano luogo nei paradigmi interpretativi correnti. Io sostengo che ora siamo in presenza di un accumulo di esperienze lavorative in gran parte mute, non elaborate per la novità della cosa in sé e per ragioni storiche; in passato la cultura lavorista non ha prestato attenzione al lavoro delle donne se non come questione secondaria e subordinata.
Cristina Borderias, storica e studiosa del lavoro, ha il merito di essere stata una delle prime a interrogare i concetti tradizionali dell’esperienza individuale e collettiva delle donne al lavoro e c’è riuscita nella maniera più semplice e impegnativa: ascoltando i racconti delle lavoratrici 3).
Narrazione
Io penso dunque che la narrazione è la pratica adatta per rompere il quadro paradigmatico (dove si procede facendo del lavoro e dei lavoratori oggetti di analisi e studio anziché farli parlare in prima persona) con un’esperienza nuova e che nel contempo riflette la prossimità alla vita della politica delle donne. Sono consapevole che la narrazione come tale non rende conto pienamente né dei fatti né della soggettività. Il punto è un altro: si tratta della forma politica e simbolica che ha permesso alla soggettività (femminile) di attivarsi, di interpretarsi da sé e di dare conto della differenza sessuale come dimensione di umanità che la cultura del lavoro tendeva a ignorare.
D’altra parte, mi chiedo, quale altro modo è pensabile per disfare i paradigmi interpretativi che non danno conto dell’esperienza femminile del lavoro?
La narrazione, naturalmente, ruota intorno a un nucleo di esperienze che una vuole condividere con quelle che l’ascoltano, ed è essa stessa la scoperta di questo nucleo e della sua condivisione. Elaborare un nuovo «lessico» sul lavoro, elaborare categorie, fa parte di questo processo narrativo che aspira all’interpretazione, alla significazione, all’azione politica. In questi ultimi dieci anni quindi, alcune di noi, per capire che cosa stava loro capitando e che cosa stava capitando nel mondo del lavoro, hanno ripetuto il gesto del femminismo delle origini di riunirsi in gruppi per parlare del lavoro interrogandone il senso a partire da sé insieme ad altre donne e ripensarlo da capo.
Indubbiamente, grazie alla cosiddetta femminilizzazione (una parola ormai in uso che adotto per farmi capire), c’è stato un disgelo del tema del lavoro di cui pochi ormai parlavano come centrale per la società. Infatti decine di gruppi e associazioni, in partenza formati da giovani donne, poi misti, si sono costituiti e comunicano attraverso la rete o in incontri più tradizionali. È una scelta quella del piccolo gruppo che potremo chiamare tipicamente femminile e che domanda di essere interrogata. Ripeto che, secondo me, questa scelta di partire dal racconto dell’esperienza per conoscere e modificare il contesto in cui si vive, oltre che mostrare la preferenza delle donne per le forme della vita quotidiana, rappresenta l’unico strumento a disposizione della/del singola/o per appropriarsi dell’idea che una/o può lavorare senza accettare passivamente le condizioni date e può acquisire la necessaria competenza simbolica per essere fedele al suo vissuto e sostenere i suoi interessi. A me sembra anche che per questa via (pratica della narrazione e guadagno di competenza simbolica) si realizzi una soluzione di continuità rispetto a quel discorso maschile che caratterizza la tradizione lavorista orientata verso l’emancipazione e l’inclusione delle donne alla pari nella organizzazione maschile del lavoro.
Attraverso la narrazione del lavoro femminile che è – come ho detto all’inizio – racconto delle nuove forme del lavoro tout-court, incomincia ad esprimersi una cul-tura originale del lavoro che ha fatto superare a molte l’orizzonte limitato della parità. Io penso che, se si allargherà la riflessione sul lavoro tenendo ferma la barra della differenza, altre mediazioni e costruzioni della tradizione lavorista maschile cadranno.
Come sappiamo, negli anni Settanta e Ottanta la rottura della continuità del discorso sulle donne è avvenuta attraverso la separazione dalla politica maschile con il formarsi di gruppi e luoghi di sole donne che così hanno creato sapere, linguaggio e pensieri. Si tratta, oggi, di ripensare il senso del lavoro di donne e uomini. La dirompenza di allora torna ad agire adesso. Il fattore dinamico è sempre lo stesso ed è la differenza sessuale. La formula da me preferita per dare conto di ciò che sta capitando adesso rispetto allora, è quella che ho già delineato prima, portare tutto al mercato: soggettività e relazioni, passioni e affettività, figli e amore, ecc. Non separare cioè la sfera relazionale dal mondo del lavoro, come si è fatto finora.
Nuove strade per il cambiamento
Anche alcuni teorici del lavoro oggi scrivono della differenza sessuale come creativa di nuove strade per chi cerca il cambiamento, altri parlano della necessità di «interiorizzare gli interessi e le competenze femminili e di trattenerle», altri ancora parlano delle donne come possibili autrici della ricomposizione dell’esperienza collettiva e individuale che è stata lacerata, e altro ancora. Ciò significa che proprio alcuni uomini attenti a ciò che succede nel lavoro e con la volontà di trovare una strada per modificare le cose esistenti, mettono al centro la differenza sessuale e le sue pratiche politiche. Oggi assistiamo così a un movimento non meno dirompente di quello degli anni Settanta ma in senso inverso, per cui la dirompenza non è più dovuta come allora al fatto di donne che si separano dalla società maschile, ma al movimento di un loro portarsi al centro.
In questo movimento ci incontriamo con quegli uomini che sono critici delle risposte che oggi si danno ai problemi del lavoro.
Versione rivista della relazione tenuta al 12mo Simposio dell’Associazione internazionale delle filosofe (IAPH), Roma 31 agosto-3 settembre 2006. Pubblicata sul n.6 del 2006 di “Critica Marxista”
Note
1 – Cfr. Christian Marazzi, Il posto dei calzini, Bellinzona, Casagrande Editore, 1994.
2 – Cfr. Alain Touraine, Le monde de femmes, Paris, Fayard, 2006.
3 – Cfr. Cristina Borderias, Strategie della libertà. Storie e teorie del lavoro femminile, Roma, Manifestolibri, 2000.