“Io piango per le api. Esse sono sterminate dagli eserciti belligeranti. In Volinia non ci sono più api.Noi abbiamo profanato portentosi alveari. Noi li abbiamo avvelenati con lo zolfo e distrutti con la polvere. Gli stracci inceneriti ammorbavano le sacrosante repubbliche delle api. Morendo, esse volavano lentamente e ronzavano adagio adagio. In mancanza di grano, noi tagliavamo il miele con le sciabole. In Volinia non ci sono più api” (Isaak Babel’ “L’armata a cavallo”).
Forse le api volano di nuovo nella regione storica dell’Ucraina nord-occidentale ma “il 20 per cento del territorio ucraino” ha riconosciuto Zelensky, è ridotto a terra desolata. E l’Onu aggiunge che, a più di cento giorni dall’invasione della Federazione russa “la guerra non avrà vincitori”.
Portando infisse nella testa categorie che ci sembrano irreversibili, siamo abituati a dire che nella guerra c’è un vincitore. E un vinto. Ma non è così. Ed è una delle tante assurdità di questa guerra.
Che però già conta le vite perdute (l’Ucraina, sottolinea Zelensky, perde ogni giorno da sessanta a cento soldati mentre le famiglie russe cercano notizie sui loro figli scomparsi); scopre i corpi sepolti nelle fosse comuni; lascia montagne di macerie; spinge milioni di donne, di bambini a abbandonare ricordi, giocattoli, progetti, futuro.
Il 2 Giugno il presidente della Repubblica italiana ha invocato la pace e “il ritiro delle truppe occupanti”. Parlava di fronte alla comunità di diplomatici, tranne quelli di Russia e Bielorussia non invitati per una richiesta dei vertici della Ue di tenere fuori dalle cerimonie ufficiali i due stati responsabili delle aggressioni.
Dunque, via il direttore d’orchestra filo-Putin dalla Scala; via il corso su Dostoevskij dall’università La Bicocca. E via gli ambasciatori dei paesi responsabili delle aggressioni. Tuttavia, se “a cerchi concentrici le sofferenze si vanno allargando, colpendo altri popoli e nazioni” (ancora Mattarella), non sarà la diplomazia, l’Onu, l’Ocse ad alleviarle, sondando il terreno per una mediazione, facilitando una trattativa?
Ad ogni buon conto e solo per fare qualche esempio, la Cina, l’India, il Brasile evitano di essere coinvolti e restano distanti dal conflitto. Si tratta di grandi paesi tuttavia questa è una guerra dell’Europa; o piuttosto, l’Europa si sente aggredita.
Senza un suo esercito, si limita a fornire armi all’Ucraina, a varare pacchetti di sanzioni. Con qualche eccezione. O concessione. Orban, ottenuto l’allentamento sul petrolio, chiede l’esclusione dalla black list del patriarca Kirill. Intanto, da calcoli molto approssimativi, s’intuisce che a soffrire per le sanzioni saranno e gli invasori e i sostenitori dei “valori occidentali”.
Gli Stati Uniti, dopo le non proprio brillanti operazioni nella ex Jugoslavia, Irak, Afghanistan, Siria (adesso va in scena lo “scambio” con la Turchia di Erdogan che vuole mano libera sui “terroristi” curdi in Siria per dare il via all’ingresso di Finlandia e Svezia nella Nato), non sono più tanto sicuri della loro egemonia.
Verrà il tempo del bipolarismo Usa-Cina ma al momento i media italiani segnalano, inquieti, il vacillare della fede atlantista incalzata dall’affermarsi della linea neutralista.
Biden, colpito dalla capacità di resistenza di Kiev, ha modificato la sua strategia con un crescendo di armamenti più pesanti e sistemi missilistici più sofisticati.
Questo mentre in America, di fronte alle tre stragi avvenute in venti giorni, tenta di fermare la diffusione di fucili e pistole. Ovvio che i massacri in Ucraina e quelli avvenuti a Buffalo, stato di New York, Uvalde in Texas, Tulsa nell’Oklahoma, non sono paragonabili nonostante a provocarli siano comunque strumenti per dare la morte.
Comunque, dal 24 febbraio ha inizio una guerra di legittima difesa e la legittima difesa poggia sulla soluzione militare. Sulla tecnologia che magnetizza i giornali, le televisioni: elicotteri Mi-17, droni, missili antiaereo Stinger, missili anticarro Javelin, sistemi missilistici multipli Himars con una gittata di 80 chilometri. Però il segretario di Stato americano Blinken conforta: “L’Ucraina ha assicurato che non utilizzerà i sistemi missilistici forniti da Washington contro obiettivi sul territorio russo”. Buona notizia. E se puta caso, qualcuno di quei sistemi missilistici dovesse oltrepassare i confini fisici (che rappresentano sempre una linea artificiosa) atterrando in terre non ucraine?
Stiamo sereni. Il raggio degli Himars è molto inferiore alla portata massima dei sistemi che è di circa 300 chilometri. Sarebbe bello che Zelensky vincesse su una potenza nucleare. Si intuisce che dalla durata della resistenza ucraina deve dipendere il ritiro delle truppe di invasione russe.
La cronaca ha descritto la rovina di Mariupol; dopo 86 giorni, la resa del battaglione Azov nell’acciaieria Azovstal. Kiev ha bisogno dei “suoi eroi vivi”. Cosa accadrà di questi eroi in mano ai russi? Saranno processati? Condannati a morte in quanto “terroristi nazisti”? Intanto in Ucraina un giovane soldato russo, accusato di aver ucciso un civile inerme, è stato processato e condannato all’ergastolo.
Giganteggia poi la questione della crisi alimentare globale, con la previsione di un numero enorme di persone a rischio povertà e fame, specialmente in Africa. Putin garantisce il passaggio di navi straniere con il grano lungo il mar d’Azov e il Mar Nero ma gli ucraini ribattono che quel grano appartiene agli ucraini e che i russi l’hanno rubato.
Il Donbass è distrutto; per Mosca il Donbass è “liberato”.
Un accumulo di assurdità scoraggianti nelle quali eroismo o resa, coraggio o viltà, forza o debolezza finiscono per perdere senso. Meglio allora guardare agli altri, infiniti modi che gli uomini e soprattutto le donne inventano per opporsi, resistere, ribellarsi: “Dal manifestare semplicemente e di nascosto una solidarietà alle vittime” (Peppino Ortoleva “Sulla viltà. Anatomia e storia di un male comune” 2021 Einaudi) alle affermazioni di rifiuto del conflitto nella Federazione russa, pagate con il carcere, all’esilio scelto dalle donne ucraine. Sono gesti disarmati ma utili per indebolire la guerra e pensare alla pace.