Non dimenticherò mai le ore passate, esattamente vent’anni fa, all’interno della “zona rossa” di Genova, mentre prendeva forma lo scontro che avrebbe portato nel pomeriggio all’uccisione di Carlo Giuliani, e poi alle cariche brutali al corteo dei 300 mila il giorno dopo, e quindi all’irruzione alla scuola Diaz. Collaboravo con il sindaco Giuseppe Pericu e la sensazione più forte era e resta l’impotenza delle buone intenzioni della politica, laddove emergevano, nel reagire a quella tremenda manifestazione di violenza istituzionale.
Temo che anche il ricordo di quelle giornate rischi di restare imprigionato nella contemplazione di una sconfitta. Anche se oggi gli effetti della pandemia ci dicono che l’idea di “un altro mondo possibile” è ancora più necessaria.
Nel fascicolo che il settimanale Internazionale ha dedicato a “Genova 2001” si cita Naomi Klein: la forza e la protesta non bastano se non si individuano “le idee centrali che attraversano le frontiere” per sostenere un movimento capace di una alternativa.
Il punto è trovarle, elaborarle, queste idee. Forse riandando con pazienza, cura, passione, alle molte cose pensate, e in parte agite, in questo primo ventennio del nuovo millennio, aperto da Genova (dopo Seattle, Porto Alegre, Goteborg) e – poco dopo – dall’attentato alle torri di New York.
Dieci anni fa avevo scritto qualcosa, interrogando tra altri e altre la storica e femminista Anna Bravo, che mi piace ricordare citando alcune sue parole sul rapporto tra movimenti e violenza:
“Non ho vissuto direttamente le giornate di Genova, ma non c’è dubbio che la repressione brutale delle forze di polizia abbia provocato un vero e proprio shock in molti dei giovani che si erano impegnati generosamente, spesso per la prima volta nella loro esperienza di vita, e del tutto pacificamente. Però sono convinta che una forte responsabilità negativa (…) stia anche nelle scelte di coloro che non rifiutarono completamente la logica della violenza, o quantomeno della sua rappresentazione simbolica… (…) Non è un caso che, come raccontano molte testimonianze, le donne si siano sentite tagliate fuori, quasi condannate al ruolo di vittime obbligate a subire la violenza poliziesca da un lato, e le logiche ottuse dei “militanti” loro amici e compagni dall’altro. Mentre la presenza femminile era stata fondamentale sia nella produzione delle nuove idee del movimento, sia nell’azione per organizzarlo e farlo vivere”.
Anna Bravo, però, non si illudeva che la forza potesse essere rimossa dalla lotta politica, anche quella più “pacifista”:
“Ai tempi dell’intervento in Bosnia ero favorevole al fatto che la comunità internazionale non girasse la testa da un’altra parte mentre era in corso la carneficina (…) Penso a quel che aveva detto allora Alex Langer… Per anni Alex ha insistito sulla necessità di essere costantemente presenti sul territorio per costruire la pace, anche con la forza, ma con una preparazione complessiva adeguata. Proponeva la creazione di un corpo di polizia internazionale, un corpo stabile, perché le abilità per condurre un’azione di questo tipo non si possono improvvisare (…) Ciò che mi lascia sgomenta è l’assenza di una riflessione e elaborazione critica sul metodo e sugli strumenti con cui si affronta e si gestisce un conflitto quando si è costretti a misurarsi con qualcuno che esercita la violenza spesso nel modo più brutale e disumano (…) sulla situazione in Libia trovo folle che, con l’eccezione dei gruppi nonviolenti, non cresca una critica più forte contro la guerra combattuta dall’alto, con i bombardamenti supposti “intelligenti”. È la forma di guerra più bieca”.
(L’intervista integrale è qui)