Ministri che criticano duramente la decisione dei giudici di scarcerare ex lege gli imputati; che sbraitano e invocano il pugno di ferro, promettendo l’estensione del “Divieto di accedere alle manifestazioni sportive” (Daspo) a quelle pubbliche, ovvero politiche, e si ostinano a portare in Senato, senza alcun ripensamento, l’infausta riforma Gelmini che ha scatenato il putiferio. Nel frattempo il responsabile della Difesa straparla da tutte le parti, come se fossimo in guerra e la guerra dovesse essere fatta contro i ragazzi che non la pensano esattamente come lui e scendono in piazza con furore.
Le reazioni della maggioranza alla manifestazione del 14 dicembre sono la cartina di tornasole di tutto quello che non va di questo governo e di questa maggioranza: la cultura politica estranea alla Costituzione, se non anticostituzionale, la vocazione autoritaria, il disprezzo delle regole, la presunzione del potere, l’incapacità di vedere i problemi reali della società. E le zone rosse per difendere il Parlamento dai manifestanti mentre il Parlamento dovrebbe trovare le strade per parlare ai manifestanti. E essere difeso dalle vergogne che l’affollano.
Ma, anche, cartina di tornasole di quello che non va, più in generale, nel Paese. In particolare, un’opposizione esangue che non sa immaginare neanche come farcela a vincere la partita della lotta al berlusconismo e rischia di perdere anche l’anima, incapace di ristabilire legami sociali, di ricucire in qualche modo uno straccio di proposta intorno a cui ricominciare a discutere con le nuove generazioni.
Che è oggi in Italia il problema dei problemi
.L’ultima generazione, in particolare, quella che ha ormai interiorizzato a fondo il disagio esistenziale del no future e prova a reagire. Lo ha fatto in tanti modi, prima del 14 dicembre, in tante occasioni, sperimentando per lo più pratiche pacifiche, colte e fantasiose, presidiando università e dintorni dei Palazzi, leggendo i classici in piazza, salendo sui tetti, cercando interlocuzioni. Con risultati pari allo zero.
Non c’è certo da stare allegri per come sono andate le cose il 14 dicembre ma la cosa peggiore, per la politica, è guardare da un’altra parte, oppure osservare l’albero e non vedere la foresta. L’albero sono gli assalti, la foresta è il contesto generale.
Di questi tempi la rivolta, nelle forme dell’assalto ai simboli del potere o della devastazione degli spazi pubblici, ha fatto la sua comparsa più volte nelle strade delle capitali europee. Spesso è esplosa in pratiche di piazza dove rabbia e ribellione si colorano di violentismo politico o se ne fanno suggestionare.
Sono gravi i fatti di Roma, gravi quanto vogliamo, anzi di più. Ma anche del tutto analoghi a quelli successi nelle piazze e strade di altre capitali. Quasi fotocopie. Da Atene a Londra, da Parigi e a Madrid. Le fiamme le abbiamo viste in diretta anche là e l’assalto alla macchina dell’erede al trono britannico con consorte al fianco vale quanto l’assalto ai blindati delle forze dell’ordine davanti al Senato. Forse simbolicamente e sul piano giudiziario di più, visto che le gerarchie sociali e istituzionali non sono uno scherzo e dominano scena, senso delle cose e ordinamenti statali.
Sono vere e proprie rivolte che coinvolgono molti o creano dinamiche di coinvolgimento di molti. Rivolte di un’età della vita ansiosa e di un’epoca di crisi che comunica ansia da vuoto di vita, perché erode le condizioni dell’esistenza e corrode fino all’osso la vita democratica.
Le due cose stanno insieme, la politica dovrebbe capirlo.
Se la Repubblica perde via via i pezzi che dovrebbero fare di essa quello che la Costituzione vorrebbe che fosse – attivo presidio di cittadinanza democratica, attivo sistema di garanzie per il futuro – e i suoi Palazzi si riempiono di quello di cui si riempiono – non raramente a un punto tale da vergognarsene – e la politica dell’opposizione è quello che è – politica dei distinguo in Parlamento e del silenzio nel Paese – dove sono i filtri, i ponti, le interlocuzioni, le mediazioni che le istituzioni rappresentative dovrebbero offrire e la politica attivamente costruire?
La Repubblica abbandona i suoi figli e le sue figlie al loro destino.
La Repubblica non è più quella dell’articolo 3.
Questo il rischio contenuto in provvedimenti come quello di Gelmini, e non solo in quello; questo il messaggio.
E allora non c’entrano niente gli spettri del passato, le storie degli anni di fuoco del nostro Paese, rievocate da ministri isterici alla caccia di un salvacondotto per se stessi e pronti a ridurre a crimine la protesta, mascherandola di stereotipi di comodo – “provocatori, “infiltrati” e quello che volete voi – per ridurla, come da copione questo sì antico, a problema di ordine pubblico.
La rivolta è una rivolta di “questa” epoca, nasce dai problemi di questa epoca, di una società che l’ultimo rapporto del Censis rappresenta protesa sull’orlo di una catastrofe da scandagliare per via psicoanalitica, con le ali tarpate, affacciata su un vuoto che inghiotte soprattutto loro. I giovani, ragazzi e ragazze no future, come loro stessi dicono si sé. Dovrebbero stare a casa a studiare, hanno detto di loro i ministri; in attesa del niente, hanno detto loro.
Per questo la reazione del governo ai fatti del 14 dicembre non poteva essere molto diversa da quella che è stata.
Daspo esteso alle manifestazioni pubbliche? Ebbene sì, senza tante sottigliezze.
La protesta è da società in dissolvenza, la reazione è da stato di polizia.
Dove andremmo a finire è fin troppo esplicito. Già per le manifestazioni sportive, il Daspo, sotto il profilo della costituzionalità, non è proprio un capolavoro. Limitare la libertà personale – spiegherebbe un costituzionalista di quelli che non fanno concessioni interpretative – con pronunciamento dell’autorità di pubblica sicurezza e non del giudice, come il Daspo prevede, è già una lesione della Carta.
Ma, diciamo noi, senza tanti giri di parole, estenderlo alle manifestazioni pubbliche travolgerebbe tutti i capisaldi dello stato di diritto, sbaraglierebbe la “riserva di giurisdizione” – cioè il compito del giudice di tutelare la libertà del cittadino di fronte all’autorità di pubblica sicurezza – indicata dall’articolo 13, terzo comma, e metterebbe sotto scacco la libertà politica.
C’è anche un lato paradossale e ridicolo in questa insana proposta: Chi compilerà le liste degli inaffidabili e dei non idonei a scendere in piazza? Chi deciderà i buoni e i cattivi? Chi metterà i tornelli nelle piazze e nelle strade?
Mille e una ragione insomma per far capire con chiarezza e determinazione al governo che non è proprio il caso di continuare sulla strada della riduzione democratica.
Ma la politica, quella che affronta i problemi, che ha a cuore il Paese, come dice Nichi Vendola: dov’è?
Mi piacerebbe pensare che anche la ministra Mariastella Gelmini, potrebbe trovare la strada della politica. Per esempio, potrebbe ritirare il suo provvedimento, fare un passo indietro, dire liberamente e pubblicamente al collega Tremonti che, tutto sommato, è meglio aprire un tavolo con gli studenti, guardare e pensare meglio alle cose perché la questione è tra le più importanti per il futuro del nostro Paese.
La politica è questo. Pensate che cambio di scena.
Non succederà. Ma sarei grata alla ministra se succedesse.