Ma in quale direzione volgerà il suo sguardo critico l’intellettuale, per assolvere quel “compito di vigilanza” che gli riassegna Umberto Eco?
Non soddisfa la classica risposta: verso l’attività del Potere. Soprattutto quando il potere politico parla il linguaggio di un osceno spettacolarizzato, che improvvisamente si rivela rappresentazione del nulla. Lo ha osservato Ernesto Galli della Loggia, solitamente motivato interlocutore di quel discorso.
Ma anche se guardiamo alle prove di forza meno effimere e più tragiche del potere – le guerre guidate dagli Usa – constatiamo dietro l’orrore inefficacia e povertà di senso. Un vicolo cieco da cui Obama sembra cercare una via di uscita.
Il punto è la perdita di senso della politica. A cui non si rimedia se la critica non raggiunge le radici della perdita. E per noi uomini – scrisse un filosofo da giovane – la radice siamo noi uomini stessi. Le nostre vite.
Darei al termine il significato sessuato e parziale, non neutro e universale, che la parola ammette. Siamo o no nel tempo post-patriarcale? Non può sfuggire a questa premessa, se l’esercizio critico cerca ancoraggio alla realtà.
Né basta intervenire sul linguaggio. “La realtà acquista un linguaggio nuovo – avvertiva Ingeborg Bachmann – ogni qualvolta si verifica uno scatto morale, conoscitivo, e non quando si tratta di rinnovare la lingua in sé, come se essa fosse in grado di far emergere conoscenze e annunciare esperienze che il soggetto non ha mai posseduto”.
Era il 1960. La Bachmann si impegnò in un progetto incompiuto: “Todesarten”. Cause di morte. “Ancor oggi – diceva negli anni in cui si allontanava la memoria del male assoluto, dell’olocausto – la maggior parte degli uomini non muore, ma viene assassinata”. Una società occidentale apparentemente pacificata, sotto la crosta delle buone maniere ritrovate coltivava il delitto. Oggi violenza e delitto quotidiani sono il piatto forte che ci viene comunicato. Un pieno estremo rispetto al vuoto del discorso politico.
Non per caso la riflessione critica su di sé e sulla cultura e il simbolico maschile che alcuni uomini cominciano a produrre prende origine dallo scandalo della violenza. Cito il recente “Centauri. Mito e violenza maschile”, di Luigi Zoja: lo stupro esercitato in branco da uomini “normali” – divenuto regola in tutti i conflitti contemporanei e in tante giornate metropolitane – evoca un archetipo uomo-animale che riemerge ora, venuto meno l’ordine patriarcale: la funzione paterna, se pure autoritaria, produceva un ancoraggio normativo.
Anche Stefano Ciccone, nel suo “Essere maschi tra potere e libertà”, parte dalla elaborazione della violenza maschile per affermare l’occasione di una differente libertà per gli uomini proprio grazie al riconoscimento della avvenuta libertà femminile, e al desiderio di una nuova relazione, conflittuale ma non mortifera, tra i sessi.
La morte è un maestro maschio?
Aprendo il racconto di una riflessione che è anche e soprattutto pratica politica di relazione, con altri uomini e altre donne, Ciccone evoca l’immagine di un contatto corporeo tenero, implicitamente paterno, tra un uomo e un bambino. Forse siamo all’inizio di un tempo per indagare anche nuove cause di vita.