Pubblicato sul manifesto il 19 febbraio 2019 –
Non ci siamo ancora completamente ripresi dalle polemiche sullo scontro tra “popolo” e “élite” nella scelta della canzone che ha vinto Sanremo: doveva essere il festival della non-politica, se non dell’antipolitica nazionalisteggiante, e invece Salvini, Di Maio e compagnia si sono avventati sull’esito dell’esibizione canora facendone argomento principe del dibattito quotidiano sui massimi sistemi che si contendono il destino della patria e di noi tutti.
Si è tirata in ballo persino l’esistenza del Demonio, e delle sette che al maligno Principe di questo mondo fanno riferimento. Tra le molte stravaganze del contesto abbiamo appreso che il ministro degli Interni, molto appassionato di musica leggera (come di tutte le cose che piacciono al “popolo”: dal calcio, alle pizzette, alle felpe colorate e variamente griffate) è da sempre un accanito fan di Fabrizio De Andrè. Chissà cosa ne penserebbe il cantautore genovese, radicalmente anarchico e sempre evangelicamente vicino agli ultimi della terra.
Ma ormai è il grottesco la cifra estetica e simbolica di questa politica rappresentata quasi esclusivamente da giovani maschi in combutta amicale e competitiva. Ragazzotti che sembrano non essere mai usciti dalla fase adolescenziale. Quando non irritano fino alla rabbia, fanno quasi sorridere, malinconicamente. Intanto in noi monta la preoccupazione che alla fine riusciranno a combinare qualche vero terribile disastro.
Grotteschi sono quelle figure realizzate nel tempo antico per ornare anfratti e grotte, nei giardini o nelle fondamenta delle ville: creature un po’ da incubo e un po’ da sogno, emergenti dal mistero dell’oscurità. Meravigliano, e suscitano divertimento e inquietudine.
Il nesso tra grottesco e politica non è una novità. Nella Roma imperiale – dove è già successo tutto ciò che costituisce il nostro caro Occidente – non sono mancati i Caligola e i loro cavalli destinati (solo nelle intenzioni, però) a fare carriera politica.
Anche il vecchio Marx – già autore del famoso detto sulla storia che si ripete trasformandosi da tragedia in farsa – ha affrontato il tema parlando di Luigi Bonaparte. Il suo avvento al potere con l’altisonante nome di Napoleone III Imperatore accadde perché «la lotta di classe creò le circostanze e una occasione che resero possibile a una persona mediocre e grottesca (corsivo mio) di fare la parte dell’eroe».
La citazione la rubo a Aldo Tortorella, nell’articolo sulla Rivincita di Marx che apre l’ultimo numero (n.6 -2018) di Critica Marxista, e che prosegue così: «Oggi, se chi ha sempre dichiarato come proprio compito quello di difendere le classi subalterne si è dimenticato della loro stessa esistenza anzi le ha avversate materialmente, non ci si può lamentare che persone “mediocri e grottesche” diventino tribuni del popolo e salgano al potere».
Mentre si cerca di archiviare la querelle sanremese ci si accorge improvvisamente che, nel segreto di qualche stanza ignota, e con linguaggi tecnico-politici ben diversi dallo sciocchezzaio mediatico quotidiano, si sta ridisegnando l’architettura dello Stato, e che si pretenderebbe di procedere senza nemmeno un serio vaglio parlamentare.
Il fatto è istruttivo. Ci ricorda che se la scena della politica è grottesca e fuorviante, la realtà della crisi italiana è seria, e non solo dal punto di vista economico e sociale. Un’altra grave responsabilità – rimossa – di chi ha preceduto e preparato i Salvini e i Di Maio, è stata quella di aver sprecato per sicumera e inettitudine politica l’occasione di riforme istituzionali ben fatte. Cioè condivise e funzionanti.