Molte persone che conosco, molte amiche e amici, sono andati al No B-Day del 5 dicembre.
Io no. Mi pareva sapesse troppo di rituale antiberlusconiano, di protesta antipremier che finisce per mettere in secondo piano il dramma della giustizia (la morte di Cucchi e non solo di Cucchi) o le tragedie del lavoro (la fine di un altro operaio della Thyssen, questa volta di Terni). Forse sbaglio, però questo genere di appuntamenti mi sembra improntato alla guerra dei numeri (cinquecentomila, un milione, due milioni?), alla sensazione che l’incontro si consumi in un pomeriggio romano – per fortuna assolato – e che ogni volta l’importante sia quel determinato momento, quelle tre ore in cui si sfila scendendo per via Cavour. Di cosa si sia discusso, cosa si propone, insomma, il “prima“ e il “dopo“ non sono importanti. Importante è dirsi che Berlusconi non fa bene al Paese. Però lo dici in quel momento e poi via, ognuno per se.
Dove sta la pratica politica, l’invenzione di soggettività, di nuove forme, più efficaci di protesta? Certo, la manifestazione è un sismografo “contro“ qualcuno. Segnala un sopruso, rivendica un diritto, pretende il riconoscimento di un obiettivo. Però lì si ferma. Il segretario del Pd Bersani l’ha presa alla lontana: movimenti di qua, partiti da là. Ognuno con il suo ruolo. Non era convinto della manifestazione? Non ha spiegato più di tanto le ragioni. Ci si è messo Nicola La Torre (un fedele dalemiano) a spiegarle: la sfida dei riformisti consiste nel dare voce a chi sta a casa. Veramente, chi sta a casa non è detto che sia contento dei gesti del premier: leggi ad personam, incontri con autocrati, invocazione al popolo. Io governo in suo nome. E tanti saluti alla Costituzione, alle istituzioni.
Per cui una manifestazione è meglio di niente.
Ma no, hanno detto le mie amiche, amici scesi in piazza. Qui ci sono i giovani, ci sono le donne. C’è il popolo di internet, la freschezza della società civile, il mondo libero dell’informazione che va sul web. Senza i partiti. Senza le censure della televisione. Senza la selezione dei temi e l’accaparramento dell’informazione da parte dei grandi media, dei poteri forti e dei grandi giornali, delle reti generaliste. Insomma, uno spazio di libertà totale.
Sarà vero?
Anche se vedo i vantaggi della rete, io azzarderei un’altra ipotesi. Ci saranno state pure le donne, i giovani, gli antichi militanti, gli appena convertiti alla protesta nei confronti di Berlusconi ma a sfilare c’erano molte mie care amiche, amici, convinti da rocciose certezze, qui ci vuole la manifestazione, gli striscioni, i cartelli, il corteo. Una volta facevamo così. Pensavamo così. Così reagivamo. Questo è il modo che conosciamo di protestare, non ce ne viene in mente un altro. Ecco, io che non vado a manifestare e loro che ci vanno, soffriamo della stessa sindrome: carenza di invenzione.