MOST BEAUTIFUL ISLAND – Film di Ana Asensio. Con Ana Asensio, Natasha Romanova, Larry Fessenden, Caprice Benedetti, Nicholas Tucci, Amy Sheth, Natalia Zvereva, Anna Myrha, Brett Azar, Miriam A. Hyman, Andres De Vengoechea, USA 2017. Direttore della fotografia Noah Greenberg. Musiche di Jeffery Alan Jones –
Most Beautiful Island” è stato molto apprezzato dalla critica, ha vinto il Premio speciale della giuria all’ultimo SXSW di Austin (Stati Uniti), è passato anche a Sitges, al London BFI, in Italia al XXXV Torino Film Festival, guadagnando una nomination agli Independent Spirit Awards 2018. È un film ambizioso pieno di riferimenti autoriali, come esplicitato dalla stessa Ana Asensio, un’attrice spagnola quarantenne al suo debutto alla regia, che lo ha co-prodotto con Larry Fessenden – che appare anche in un cameo – un finanziatore di molti film horror indipendenti americani.
La storia narra un’intera giornata di Luciana, immigrata dalla Spagna e sbarcata a New York, città considerata a tutt’oggi la terra delle opportunità. Fuggita da un passato doloroso, probabilmente la morte accidentale di una figlia di cui si sente responsabile, e senza permesso di soggiorno, la protagonista, “sbarca il lunario” facendo lavoretti vari, come ad esempio la baby-sitter di due viziati e pestiferi bambini o la ragazza-sandwich per un chicken fast food. Indebitata con la roommate per l’affitto, senza soldi per pagare una visita medica, Luciana accetta “a scatola chiusa” un lavoro che promette un facile guadagno, come accompagnatrice in un party per gente ricca, dove però poi non si saprà bene cosa possa succedere.
Qui il film cambia registro e riferimenti cinematografici. Infatti, “Most Beautiful Island” è costituito da una prima parte molto intensa dove la regista-attrice strizza l’occhio ai film indie – produzioni cinematografiche indipendenti e storie raccontate con punti di vista senza fronzoli – di John Cassavetes che rappresentano problemi di vita metropolitana, con uno stile neo-realista di un certo nuovo cinema rumeno capeggiato da Christian Mungiu (“Un padre, una figlia”, del 2016), narrando la storia tutta-in-un-giorno come molti film dei fratelli Dardenne (“Due giorni, una notte” del 2014).
La seconda parte, a mio avviso, è meno riuscita e più banale, nonostante una discreta suspense che precede la rappresentazione dei giochi perversi per ricchi sadici che giocano sulla pelle dei poveri. A proposito di queste scene così afferma Ana Asensio in un’intervista di Stefano Falotico per “Daruma View”: «Ho deciso di giocare con le aspettative degli spettatori, dando loro il tempo di proiettare le proprie paure e i propri desideri. Penso che sia questo l’elemento chiave. Appoggiando la fotocamera sui volti e lasciando che i silenzi e le pause fossero più eloquenti di tante inutili parole. Questo modo di girare e queste soggettive aiutano il pubblico a vivere attimo per attimo, in empatia con il personaggio principale. Ciò che si disvela alla fine potrebbe essere meno spaventoso di quello a cui le nostre paure ci stavano conducendo».
I riferimenti di questa seconda parte vanno forse cercati nella filmografia di Roman Polanski e di David Cronenberg, e qualche critico ha addirittura scomodato Stanley Kubrick e il suo “Eye Wide Shot” del 1999. Qui, però, manca sia il senso dello spettacolo – le ambientazioni sono scarne e si svolgono in sotterranei di edifici degradati – sia l’amplificazione onirica e c’è una totale assenza di ambiguità.
La rappresentazione delle tematiche sociali mostrate è molto dura. Il film rivela la maniera in cui gli stranieri irregolari siano più predisposti a diventare prede del sottobosco della società capitalistica (ma forse non solo di quella), e narra le vicende di tante ragazze immigrate che, scappate dalla povertà da varie parti del mondo e in cerca di fortuna, per racimolare soldi o successo, si trovano disposte a tutto, anche a vendere le proprie amiche come la caporalessa Olga, e a rischiare la propria vita. È quindi vero che «A New York tutto è possibile» come dice Olga a Luciana, ma ciò è vero anche per le esperienze decisamente negative.
Ana Asensio mostra una notevole sensibilità nel descrivere la crudezza e la vita frenetica di New York, in una pellicola 16 mm come si usa per i documentari, con messe a fuoco particolari, e con la macchina da presa che non molla mai la protagonista. Le scene sono tutte sottolineate dalle musiche suggestive di Jeffery Alan Jones. A mio avviso, il film costituisce sicuramente una buona prova, ma nella sua prossima pellicola la regista-attrice dovrebbe mettere meglio a fuoco una sua individualità stilistica e cercare una maggiore unitarietà tra le parti.