Saremmo dunque governati da forze anti-sistema e anti-establishment, votate al cambiamento più radicale del modo in cui si gestiscono le cose e si rappresenta il paese. Seguo come il presidente del Consiglio Conte (“mi aggiornano” pare abbia risposto ieri mentre era a Amatrice) la indecorosa vicenda della nave “Aquarius”, e spero che se alla fine quelle persone in fuga da violenze e vite degradate saranno accolte da un altro stato ( la Spagna, pare mentre scrivo) la cosa non giovi all’immagine del “governo del cambiamento”. Preferirei criticare grillini e leghisti non solo – come dice Giuliano Ferrara (sul Foglio di ieri) – per come sono, qualunque cosa, anche positiva, facciano, ma anche proprio per quello che fanno (e dicono o tacciono).
L’ex direttore del Foglio non è l’unico, tra consumati osservatori delle cose politiche, ad aver preso di traverso l’ascesa del terzetto Di Maio – Conte – Salvini.
(E tra parentesi: ho trovato un po’ inquietante questa discussione pubblica tra un editore e i giornalisti del suo quotidiano sulla “linea” da tenere verso i nuovi potenti. Per non dire del licenziamento in tronco del direttore del Mattino Alessandro Barbano da parte di Caltagirone. Un fatto di cui quasi solo Radio Radicale si è occupata con insistenza, seguita da Repubblica, dal Tg di Gaia Tortora e di Mentana, e pochi altri).
Ma torniamo a chi “gufa” contro il “governo del cambiamento”. Sul fatto che l’esecutivo diretto (?) da Conte sia tutto sommato espressione di una tradizionale italica “continuità” , semmai trasformisticamente capace di riadattamenti piu o meno gattopardeschi, scommette il vecchio inventore del Censis, Giuseppe De Rita, che giunge al punto di osservare come nemmeno il linguaggio aggressivo, gridato e rozzo sarebbe una vera novità da “Terza Repubblica”. Infatti fin dagli esordi della “Prima” Togliatti e De Gasperi non se le mandavano a dire, mentre la Dc emarginò brutalmente sia lo stesso De Gasperi, sia Aldo Moro, per non parlare dei metodi di Craxi (e della sorda dura guerra che gli fece Berlinguer), fino al recente “stai sereno” di Renzi a Letta.
Ma la differenza che rimpiange il “continuista” De Rita è che fino a un certo punto attorno ai leader politici esisteva davvero un establishment concepito come un “nucleo di intellettuali, tecnici ed esperti capaci di fare insieme previsione di futuro e quotidiano back-office per la decifrazione dei problemi e dei poteri in gioco”.
“Quel po’ di establishment che avevamo ereditato nel tempo – afferma De Rita nell’ambito delle discussioni per il “mese di sociale”, dedicato all’esigenza di una “cultura per governare” – è stato raso al suolo: la fascia alta della burocrazia statale è stata resa debole e dipendente (…) quel po’ di guida strategica del potere statuale che si era sviluppata nella tecnocrazia della pianificazione e della gestione dei grandi eventi pubblici (dalla Cassa per il Mezzogiorno ai Piano Vanoni) è stata vista come un potere estraneo ai meccanismi del consenso collettivo (…) i grandi Uffici studi degli anni ’50 e ’60 (Banca d’Italia, Iri, Svimez, Eni, ecc.) non ci sono più…”.
È questo tipo di establishment che di fatto non esiste più, anche – sono sempre opinioni di De Rita – a causa della polemica concentrata contro la “Casta” da Grillo ( e dai giornalisti del Corriere della sera). Quella attuale, priva di adeguati apporti di intelligenza nella visione e di abilità nella gestione, sarebbe dunque una continuità votata alla mediocrità.
Non mi unisco al grido provocatorio e nostalgico di De Rita: “aridatece la Casta!…”. Ma temo che possiamo aspettarci qualcosa di peggio della mediocrità, per quanto denominata a cinque stelle.