Pubblichiamo l’intervento di Grazia Zuffa all’incontro “Sulla violenza.Ancora“, rivisto dall’autrice.
Il testo “Sulla violenza, ancora” invita a ragionare a partire da fatti recenti di violenza e non solo recenti. E, come ha insistito Letizia Paolozzi introducendo il nostro incontro, a restituire alla politica il discorso sulla violenza, oltre la cronaca.
Mi soffermo innanzitutto sulla parola violenza e sull’uso che se ne fa. Il documento cita all’inizio fatti differenti (dal delitto di Vincenzo Paduano che ha dato fuoco alla ex fidanzata,ai massacratori del Bataclan), notando che sono accomunati dall’unicità della parola violenza “che tuttavia copre fenomeni differenti”. Mi chiedo se si debba intendere che la parola (violenza) copre nel senso di “abbraccia” (fenomeni differenti), oppure se “copre” nel senso di nascondere il senso dei fenomeni. Poiché se, nel secondo caso, già i fenomeni di cui vogliamo ragionare sono categorizzati in maniera impropria, risulta più difficile il compito di “restituzione alla politica”, cui invitava Letizia.
Ciò non significa che non ci sia un filo che lega, nelle differenze, l’uomo respinto che brucia una donna, i rapitori di donne di BoKo Haram, l’attentatore che investe donne, uomini e bambini che passeggiano per le piazze. Il filo – cito il documento – è la volontà di “dominio di un essere umano su un altro essere umano”, di cui il dominio dell’uomo sulla donna rappresenta l’archetipo; un dominio che assume la sua forma estrema quando si “decide della vita e della morte” dell’altra/dell’altro.
Ma – ripeto – è sull’uso della parola violenza che occorre ragionare in partenza. Si è detto, citando Tamar Pitch, che l’uso estensivo del termine è in relazione al tramonto di altre parole e concetti. Il primo esempio che viene in mente è la “violenza” del lavoro precario e della riduzione dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, che un tempo si sarebbe definito “sfruttamento” dei lavoratori e delle lavoratrici. Una parola “politicamente posizionata”, cui per molto tempo si è data una risposta politica con la lotta di classe. Dunque, la parola omnicomprensiva “violenza” segnala in primo luogo la decadenza di alcune risposte, e prima ancora, delle rappresentazioni politiche sottese.
Tuttavia ne veicola altre. Faccio un esempio: il modo in cui vengono raccontati i casi di femmicidio in alcune trasmissioni televisive. Di recente, nel racconto di un caso precipitato in femmicidio, mi ha colpito l’immagine della donna vittima del “compagno violento e aggressivo”. La definizione, soprattutto l’aggettivo (il compagno “violento”) veniva ripetuta in maniera martellante e ossessiva. Con l’effetto di comunicare paura e rabbia. Rabbia (più che legittima) contro chi non l’ha difesa (magistratura, forze dell’ordine). Paura e impotenza, per la scarsa fiducia nel cambiamento. Ancora rabbia, perché si pensa che il femmicida non sarà punito come meriterebbe (il che è una realtà, spesso). Al tempo stesso, ribadire la qualificazione “violenta” dell’aggressore serve a rappresentare l’incolmabile distanza fra la vittima e il carnefice; fra l’amore e il possesso.
La vittima ha sbagliato per amore, quello che era in realtà sete di possesso, di un uomo “aggressivo e violento”. Una violenza costitutiva e qualificante del “carnefice”. Una violenza inemendabile, sembra essere il sottinteso. E’ questo “inemendabile” a fare problema, quando il terreno politico evocato è quello della giustizia.
Si chiede una pena più certa, non è questo il punto dolente. O meglio non lo sarebbe, se non fosse che la “certezza della pena” è sempre stato uno slogan che sottintende ben altro. E cioè: ci sono reati “inemendabili”, perché chi li compie è “inemendabile”. Per questa ragione, il colpevole dal carcere non dovrebbe uscire mai o almeno il più tardi possibile.
Certo, ci sono reati gravi, e vanno puniti. Penso alla mafia, al camorrista che uccide, all’omicida e al femmicida. E anche qui ci sono differenze, non sono fenomeni sovrapponibili. Ma se il tratto comune è che questi autori di reati sono pensati come radicalmente altri dalla normalità, e perfino radicalmente in-umani (tanto da negare il funerale a un capo mafia, ad esempio), le conseguenze sul piano della politica della giustizia (e sull’idea di convivenza civile che vi sta dietro) sono facilmente immaginabili.
Inoltre, l’idea “dell’incolmabile distanza fra vittima e carnefice” non rende giustizia – è bene usare questa parola.- neppure alla vittima, perché la inchioda alla figura di “innocente”, in tutto e per tutto. Sappiamo invece che c’è un legame fra vittima e carnefice, e un intreccio di amore/odio, anche dalla parte della vittima (fino all’estremo in cui la vittima si muta in carnefice: si legga Eli Wiesel in Night, Dawn and Day, dove l’ebreo vittima nel lager nazista diventa il carnefice del giovane ufficiale inglese, come militante nella lotta terrorista contro il governo britannico di Palestina).
Perché dunque inchiodare la donna alla “purezza” di vittima? Perché si pensa di avere così più armi per “inchiodare” l’uomo violento? Eppure noi dovremmo stare dalla parte di Pamela non tanto perché giovane “vittima della droga” che stava in comunità perché quello era il suo posto, quanto per il suo desiderio di libertà, di sottrarsi a un regime di controllo capillare (quale quello esercitato ancora oggi da molte comunità) che non sopportava.
C’è ancora qualcosa da dire sulla visione dicotomica amore versus possesso. Essa alimenta l’idea che ci sia un amore “puro”, non contaminato dal desiderio di “possedere” la persona amata. Un amore che perciò consisterebbe unicamente nel “volere il bene dell’altro/altra”. Una visione oblativa dell’amore che non vuole fare i conti con la realtà umana. I riflessi di quest’idea sul piano politico sono ben visibili sul tema dei minori e della genitorialità, ad esempio: laddove le istituzioni preposte alla tutela dei bambini sono spesso orientate a distinguere i genitori fra quelli “che vogliono il figlio per sé” e quelli che vogliono il figlio/la figlia “per il suo bene”. E pensiamo a quanto questa immagine di falsa dicotomia abbia influito e influisca in tema di fecondazione medicalmente assistita e, di recente, della surrogacy.
Allo stesso modo, rischiamo di non capire l’intreccio fra sessualità e potere, nella sessualità maschile. Gli uomini hanno sempre esercitato il proprio potere (economico, intellettuale, di status sociale) come fattore di attrazione sessuale. E anche per le donne ha funzionato l’aspetto seduttivo del potere maschile. Le cose sono cambiate. Il potere degli uomini non attrae più, o attrae di meno, nel rapporto fra i sessi. Forse perché le donne hanno più potere di prima. Perciò gli uomini rischiano di essere ridicoli quando mettono in campo il loro potere, oppure le donne stanno al gioco, ma in maniera strumentale. Questa è certo una delle ragioni della crisi della sessualità maschile.
Il movimento Me Too andrebbe letto in questa chiave. Non solo e non tanto la rivolta delle vittime di molestie sessuali, quanto la messa in scena della crisi del potere maschile come elemento di seduzione.