Pubblicato sul manifesto il 14 novembre 2017 –
Ricordo l’enorme impressione che mi fece forse il primo grave incidente in mare legato ai nuovi flussi di migranti verso il nostro e gli altri paesi europei. Allora l'”invasione” ci minacciava dalla vicinissima Albania. Il 28 marzo 1997 una motovedetta della marina militare italiana in un’azione di contrasto speronò la motovedetta albanese Katër i Radës (Quattro in Rada).La nave era carica di circa 120 profughi in fuga dall’Albania in rivolta, affondò, e morirono 81 persone di cui si riuscì a recuperare il corpo e, si stima, tra 27 e 24 persone mai ritrovate. I superstiti furono 34.(Lo ha ricordato Tommaso Di Francesco sul manifesto del 28 marzo 2017, a vent’anni esatti dalla strage)
Pensai allora che di ognuna di queste vittime avrebbe dovuto essere raccontata con profonda passione e conoscenza l’intera vita. Le loro biografie non dovevano perdersi nell’oblio, ma fondare una memoria contro il rischio della violenza, spinta dalla paura dello straniero, del diverso, dell’altro che bussa alla porta chiedendo aiuto.
Quelle vecchie emozioni sono riapparse leggendo in questi giorni qualcosa di simile riferito ai corpi – quasi tutti ancora senza nome – delle 26 giovani donne nigeriane raccolti in mare e sbarcati da una nave spagnola a Salerno. Ormai facciamo fatica a vivere i sentimenti adeguati di dolore, di sdegno, di rabbia, per la quantità di violenza che non riusciamo a arginare, che forse indirettamente contribuiamo a esercitare, né siamo capaci di tradurre queste reazioni in parole, in gesti adeguati.
Colpisce la logica gerarchica con cui le informazioni sulle vittime vengono confezionate e offerte al pubblico, catalizzando o meno l’attenzione di chi fa politica, riflette, analizza. Se un seguace dell’Isis falcia otto ciclisti con un suv a Manhattan le prime, seconde e terze pagine dei nostri quotidiani si riempiono di articoli e di immagini, attivano una catena di riferimenti che conducono all’attacco alle Twin Towers del 2001, agli altri attentati nelle città europee. Ma se un’autobomba – si tratta dunque di un fenomeno terroristico simile – uccide più di 300 persone a Mogadiscio, l’eccidio stenta a conquistare un titolo in prima pagina. A malapena qualcuno di noi si incuriosisce sulle cause e le dinamiche che sconvolgono un paese tanto distante (ma anch’esso in realtà assai vicino alla nostra storia, con il suo periodo di aggressività coloniale).
Gli sbarchi forse diminuiscono, grazie alle spregiudicate iniziative del governo italiano, ma pochi giorni fa, di nuovo, una cinquantina di migranti sono affogati vicino a noi, con una inquietante tensione tra una imbarcazione della guardia costiera libica e una nave delle Ong.
Però serve a poco notare che lungo il 2016 i morti nel Mediterraneo sono stati più di 5.000, quasi il doppio delle 2.603 vittime degli attacchi aerei su New York. E da quanti anni si ripete questo massacro? Quanti anni durerà ancora? Qual è il modo giusto di reagire a una tale forma di terrore?
Chomsky sollevò la questione delle vittime “non meritevoli di considerazione” già molti anni fa (nel libro La fabbrica del consenso). Oggi questo interrogativo mi sembra più urgente perchè le dinamiche della violenza ci sono così vicine. E ci confondono. L’attentato terrorista assomiglia sempre di più a un “banale” incidente stradale (ma non bisognerebbe chiedersi anche quanto senso abbia accettare tante morti per un poco sensato sistema di mobilità?). Mentre la mente dell’attentatore “radicalizzato” assomiglia a quella del normale “pazzo” che fa una strage in chiesa dopo aver litigato con la suocera. Per non dire che noi stessi – in quanto maschi – ci scopriamo improvvisamente persecutori di vittime che si ribellano come mai prima d’ora.