Pubblicato sul manifesto il 20 giugno 2017 –
Il 23 maggio ho partecipato a un incontro tra tutte le varie “anime” della sinistra alla sinistra del Pd, organizzato dall’Associazione per il rinnovamento della sinistra (Ars), il cui senso è stato sintetizzato su questo giornale dal presidente dell’Ars Vincenzo Vita, con un articolo già significativo nel titolo: “Facciamo una lista alla sinistra del Pd. È non più di una”. Anche se con accenti e giudizi diversi, era stato un confronto molto civile: mi era sembrata una buona partenza. Dopo meno di un mese il percorso di scambio tra le suddette “anime” già appare orientato a una sorta di contrapposizione identitaria. All’assemblea del Brancaccio, convocata da Anna Falcone e Tomaso Montanari, Giuliano Pisapia ha scelto di non partecipare perchè – ha scritto – “non ci sono le condizioni perchè io venga”. I promotori dell’incontro, anzichè rammaricarsene, sembra abbiano apprezzato. Chi, come Miguel Gotor, bersaniano, ha affermato che andrà comunque all’altro appuntamento apparecchiato dall’ex sindaco di Milano il primo luglio, è stato fischiato.
Penso che non ci si dovrebbe arrendere a logiche di questo tipo, ma non ho ricette sicure da suggerire. Propongo un interrogativo sulla parola intenzioni, partendo da un’esperienza personale che, forse sbagliando, si è sempre basata nel giudicare gli altri e nel relazionarmi con loro, non solo sulle scelte e le azioni compiute, ma anche sulla natura e la bontà o cattiveria delle intenzioni che le hanno mosse.
So bene che si tratta di un punto di vista poco condiviso. Il detto popolare “di buone intenzioni è lastricata la strada dell’inferno” sembra non lasciare scampo morale. Sia nel senso che è inutile, e persino dannoso, coltivare buone intenzioni se a esse non segue un agire coerente. Sia in quello che riguarda tutti i casi in cui le azioni sono comunque cattive: che le intenzioni fossero buone non può modificare un giudizio negativo sugli attori, anzi, semmai lo aggrava. Io penso invece il contrario (e mi consola un poco la morale cattolica che insiste sulla distinzione tra peccato e peccatore).
L’interrogativo mi è suggerito dell’insistenza di alcuni e alcune sul valore non solo politico ma identitario dell’aver votato Si o No al referendum costituzionale del dicembre scorso. Un atteggiamento che mi è capitato di criticare in questo spazio già alla vigilia del referendum, e che ha contribuito non poco a determinarmi nella scelta dell’astensione. L’idea che il No possa costituire una discriminante fondamentale per la costruzione di una nuova sinistra mi sembra fondamentalmente sbagliata. Un errore che trova il corrispettivo speculare nella posizione di Renzi, che continua a scommettere sul consenso di quel 40 per cento di Si, come fossero tutti voti di apprezzamento rivolti a lui, cosa molto discutibile, mentre non ha nemmeno provato a interrogarsi sugli errori molto gravi che ha compiuto sul terreno più importante per la politica istituzionale, cioè la condivisione delle regole fondamentali della democrazia.
La Costituzione offre certo contenuti importantissimi per l’azione di una sinistra da ricostruire, ma non è un programma di governo, dovrebbe comunque essere aggiornata (basta pensare ai limiti del funzionamento delle Regioni, all’esigenza di un vero federalismo municipale, all’assetto del sistema dell’informazione, alla domanda di più forti strumenti di partecipazione popolare, e molto altro) e essere sempre di più strumento di intesa sui valori – starei per dire le intenzioni – fondamentali tra tutte le forze che in essa si riconoscono. Ma chiedo: quale nesso è visibile tra il No di Grillo e delle destre “in difesa della Costituzione” e la loro posizione sullo Ius Soli e la realtà dell’immigrazione?