DeA vuole riflettere sui risulati elettorali, sulla sconfitta della sinistra, sui mutamenti della società italiana. Cominciamo ascoltando il parere dell’ex capogruppo alla Camera di Rifondazione comunista, Gennaro Migliore.
Nelle analisi sulla sconfitta in genere si accusa lo scarso “appeal” del “cartello” della sinistra arcobaleno. Meno si riflette sui due anni di prova di governo. Premesso che a mio giudizio tutti nella coalizione hanno commesso errori, dove ha sbagliato la sinistra? Ha protestato troppo e ottenuto poco? Non ha capito il valore strategico di una alleanza con forze più moderate, ma pur sempre preferibili alle destre?
Effettivamente gli errori ci sono stati da parte di tutti. Il progetto dell’Unione era basato su tre capisaldi: una alleanza molto ampia, da Bertinotti a Mastella, la scrittura di un programma comune, la selezione della leadership con le primarie. E’ stato un triplice fallimento. I soggetti dell’alleanza non si sono impegnati nel reciproco rispetto. Io mi faccio l’autocritica per la mia parte, ma rifiuto l’idea di Veltroni che tutta la colpa sia stata a sinistra. Il programma comune è stato disatteso. Eppure era una innovazione reale. In questa campagna elettorale i programmi sono di fatto spariti, Berlusconi non ne ha nemmeno uno vero… non esiste un progetto di governo a cui riferirsi…
E sulla leadership?
Il terzo limite grave riguarda proprio Prodi. Come ha osservato anche D’Alema è rimasto troppo legato all’eredità di un liberalismo italiano che vede nell’equilibrio della finanza pubblica l’unica vera priorità, a scapito dell’equità che il nostro popolo si aspettava. Fallito il progetto dell’Unione noi ci siamo trovati fuori posto, in una collocazione sbagliata, in un certo senso velleitaria.
Vuoi dire che dovevate sganciarvi prima?
No, noi abbiamo sempre detto la nostra, ma le vere preoccupazioni del governo non sono mai venute dalla nostra parte. Abbiamo sbagliato la previsione sulla nostra efficacia.
Ha sbagliato anche Bertinotti a fare buon viso al “me ne vado da solo” di Veltroni? Perché ha parlato di “divorzio consensuale”, non sarebbe stato più convincente criticare la rottura del Pd e insistere per una alleanza su nuove basi? In fondo molti elettori di sinistra hanno scelto il Pd: forse non erano così affezionati al ritorno all’opposizione…
Non lo credo. Chi ha votato da sinistra per il Pd è proprio l’ultimo brandello dell’antiberlusconismo. Non è stato un voto “per”, ma un voto “contro”. I flussi elettorali ci parlano di un fenomeno imponente di spostamento a destra: il Pd prende un milione di voti da sinistra ma ne perde altrettanti verso il centro e la destra. E’ il sintomo di un mutamento sociale radicale. Credo che Bertinotti non avesse alternative di fronte al fatto compiuto di Veltroni. E noi non abbiamo perso voti per questo motivo. In realtà credo che li avessimo già persi quando non abbiamo saputo rilanciare l’ iniziativa dopo la manifestazione del 20 ottobre: la nostra posizione sul welfare è apparsa troppo debole. Piuttosto oggi mi preoccupa l’assenza di opposizione da parte del Pd. Berlusconi si candida a essere il tranquillo traghettatore verso un paese a forte egemonia della destra.
Noi ci siamo conosciuti a una iniziativa di Rifondazione sulla differenza sessuale. Rifondazione – insieme al suo giornale, Liberazione – è stato il partito che ha più insistito sull’importanza del femminismo nel rinnovamento della politica e della sinistra. Ma quali modificazioni reali ha prodotto questa maggiore sensibilità? Oggi la candidatura di Nichi Vendola alla segreteria sembra sospinta da un leaderismo che contraddice all’idea di nuove pratiche politiche. O no?
E’ una polemica che rovescio. Intanto è più chiaro avanzare apertamente una candidatura sin dall’inizio di un percorso congressuale. E poi proprio il fatto che Vendola continuerà a fare il suo lavoro di presidente della Puglia dice che nessuno pensa a una leadership personalistica e taumaturgica. Sarà necessario – se questa ipotesi politica vince – anche per motivi pratici, un governo collegiale. E senza una profonda riforma degli istituti della partecipazione e della decisione la sinistra stessa – che storicamente ha inventato i soviet, i consigli di fabbrica, le case del popolo -non ha futuro. Ma è vero che i nostri richiami alla democrazia di genere rischiano la ritualità, o la trasformazione in meri segnali di posizionamento. Invece questa cultura critica deve essere parte integrante del nostro non sentirci autosufficienti. Abbiamo un debito verso il femminismo. E il mio debito personale è quello di un maschio che non ha fatto pienamente i conti con la sua condizione maschile, almeno non al punto di considerare non solo la crisi della rappresentanza, ma la critica al patriarcato come il punto da cui ripartire. Mi sarebbe piaciuta una riflessione più approfondita sulle ragioni della nostra sconfitta, sui limiti di una esperienza collettiva. Invece ho subito anch’io, e male, la riduzione di tutto questo a un regolamento di conti interno. Devo dire anche da parte di compagne del movimento femminista… Alla logica del capro espiatorio dovevamo saper opporre la riappropriazione simbolica di un terreno comune, di una condizione di confronto che non va solo enunciata, ma assunta come dato costitutivo di una nova identità.
Ho letto sul “manifesto” un’inchiesta in cui si parla di una fabbrica in cui la metà degli operai si droga con cocaina e eroina… Nei discorsi della sinistra torna spesso il richiamo prioritario al lavoro. Ma resta un rferimento mitico e astratto a un conflitto di classe che forse non c’è più, almeno nelle forme tradizionali…
Io penso che si riproponga la classica analisi marxiana: c’è una mercificazione del lavoro che è in attesa di una nuova coscienza di classe. Ha qualche secolo, ma oggi è più intensamente vera. Una volta, fuori della fabbrica c’era un contesto che rendeva credibile il cambiamento. Una fonte di energia per la lotta, nonostante le tante sconfitte in fabbrica. Oggi è sbagliato considerare questa condizione dentro il ritorno della categoria del conflitto tra capitale e lavoro, quasi fosse un formula magica. Bisogna tornare a agire fuori e dentro la fabbrica. Conosco anch’io lavoratori che si drogano. Negli anni ’70 la droga poteva anche essere la ricerca di una nuova esperienza. Oggi è spesso il mezzo chimico per reagire a un condizione di fatica e di dolore che è molto diffusa. Non serve il paternalismo. Ma la comprensione di un disagio reale, di una alienazione.
Anche per questo è sempre più necessaria l’idea e il progetto di un nuovo soggetto della sinistra. Non una evocazione di identità, ma un processo reale, fatto di forze diverse e non solo di un partito. Se ci si concentra solo sull’organizzazione si fallisce anche il risultato organizzativo…