Pubblicato sul manifesto il 3 febbraio 2015 –
Mi ero esercitato, approfittando di questo spazio, nell’esprimere le mie preferenze per il nuovo capo dello stato, indicando Emma Bonino e Romano Prodi. Ma ora che è stato eletto Sergio Mattarella non posso negare che si tratti di un esito comunque positivo. Direi il migliore, ai miei occhi, tra i vari altri nomi circolati.
Mi è tornata in mente l’unica occasione in cui mi è capitato di avere uno scambio diretto con Mattarella. Unica, ma molto intensa. Lo avevo intervistato per l’Unità un sabato di luglio del 1992, in una Palermo ancora sconvolta dagli omicidi di Salvo Lima (marzo) e di Giovanni Falcone (maggio). Due attentati contro obiettivi del tutto opposti, ma coerenti nella reazione violenta della mafia che rispondeva al maxiprocesso e alla efficace repressione dello stato, e cercava nuovi equilibri nel terremoto del potere politico che stava vivendo l’Italia.
Mattarella era vicesegretario della Dc di Forlani, in quota alla sinistra del partito, e commissario dello Scudo Crociato in Sicilia, dove stava sostenendo il progetto di un governo regionale col Pds di Occhetto e i partiti laici, Psi, Psdi e Pri. Lo stesso Pds al suo interno e altre forze di sinistra come la Rete di Orlando erano – tanto per cambiare – divisi su quella scelta. Mattarella la sosteneva motivandola proprio con l’impegno antimafia, sulla questione morale, e per definire le riforme istituzionali. L’urgenza e “la frontiera” – mi aveva detto – non sono i rapporti tra i partiti, ma la crisi profonda tra sistema politico e società (era il primo anno di Tangentopoli). Un impegno comune era essenziale per una riforma che rendesse “evidente le responsabilità, le scelte degli elettori”. Non mancavano le citazioni di Moro.
Ma al di là delle parole, sempre misurate (“sin troppo”, mi ero concesso di scrivere…), mi aveva colpito il clima, la situazione. Il vicesegretario nazionale della Dc mi aveva ricevuto da solo, nei saloni austeri, e deserti nel giorno festivo, del Palazzo dei Normanni. C’erano state minacce di bombe. Leoluca Orlando, minacciato anche lui, viveva in una caserma. La tensione e la paura erano palpabili. E la solitudine del mio interlocutore mi sembrava esprimere il tramonto di un intero mondo politico.
Ero tornato a Roma in aereo domenica, e appena atterrato appresi del nuovo attentato a Borsellino, avvenuto mentre ero in viaggio. Mi costò qualcosa richiamare Mattarella. Un uomo, pensai, inseguito da un destino politico segnato dalla tragedia. Era sconvolto. “Mio Dio, è terribile, è terribile quello che sta succedendo, è terribile il senso di sconforto che ti prende, l’avvilimento…”. Poi si era ripreso, ricordando la stagione palermitana insanguinata di un decennio prima. Non aveva citato nomi, ma erano gli anni, tra il ’79 e l’82, in cui erano stati uccisi dalla mafia non solo il fratello Piersanti, ma l’altro esponente locale della Dc Michele Reina, gli investigatori Basile e Costa, e poi Pio La Torre e il generale Dalla Chiesa.
E’ molto significativo che sia oggi presidente della Repubblica un politico che ha vissuto così da vicino questa vicenda storica tremenda, e che si è impegnato direttamente per la riforma del sistema.
Molti dei problemi letteralmente esplosi nella Palermo di oltre vent’anni fa non sono ancora risolti. Sarà interessante – è stato notato – vedere ora che cosa uscirà nella dialettica tra il riformismo di Mattarella e quello di Renzi. E chi ha idee ancora diverse sul senso e lo scopo della politica avrà di fronte l’esponente di una cultura che potrebbe essere sbagliato sottovalutare.