Ho deciso di non sprecare un solo minuto di tempo nello sport tutto italiano di cercare in ogni dibattito il retrogusto amaro della politica politicante. Assumo come interamente valida l’onestà intellettuale di Giuliano Ferrara nel lanciare la moratoria sull’aborto e credo nel dolore dell’ex direttore dell’Unità Giuseppe Caldarola di fronte a ciò che gli appare come pigrizia della sinistra di fronte alla spaziosità teorica delle riflessioni di Benedetto XVI.
Ciò che mi interessa, e talvolta mi stupisce, invece, è l’uso che dell’intelligenza e della sensibilità fanno molti uomini impegnati nella sfera pubblica e la cui personalità spesso coincide con la sfera pubblica. Nel ripensare all’aborto dal 1978 ad oggi, parlano di libri, di svolte teoriche, di riflessioni filosofiche, di letture che li hanno illuminati.
Noi, ragazze degli anni settanta che abbiamo camminato per le strade con loro e i loro coetanei, anche se siamo di buone letture, pensiamo a visi, a storie, a dolori. Sappiamo che, se abbiamo abortito, lo abbiamo fatto perché le nostre madri e i nostri padri non ci hanno dato nessuna chiave per stare al mondo da libere e da uguali e perché i nostri compagni-amici erano troppo impegnati a scalare ogni cielo che si offrisse ai loro ramponi per aiutarci per tempo nella strada dell’ autonomia, unica chiave per la responsabilità. Siamo orgogliose della cura minuziosa, sollecita, condivisa, che ha permesso che le nostre figlie non abortissero, che governassero il loro corpo e la loro coscienza con una maturità che a noi non era data. Nessun filosofo ce lo ha insegnato, nella sfera pubblica questa vittoria silenziosa non si è potuta esibire, ma per fortuna le statistiche ce ne danno merito. Non sono le nostre ragazze, che hanno fatto i loro studi e parlato fitto fitto con la mamma a quindici anni, a far la fila nei reparti di ostetricia. Sono le povere, le nere, le immigrate, le vittime della solitudine e dell’instabilità, quelle a cui tutto è stato tolto e, insieme a tutto ciò che è materiale, il calore della cura e dell’ascolto.
Badate bene: il problema non è come orientiamo la compassione nella sfera morale di ciascuno di noi, ma come orientiamo l’immaginazione collettiva, su cui poi produciamo scelte e norme, nella sfera pubblica. Io mi sono abituata, non solo a rispettare, ma a condividere le sollecitudini quotidiane di culture che non toccano cibo che non sia vegetale in nome di quel valore della connessione di tutte le forme di vita che anima anche i fautori della moratoria. E tuttavia, se devo esercitare la mia immaginazione, forse perché malata di concretismo femmnile, mi riesce più facile identificarmi con Isoke Aikpitanyi, l’incredibile ragazza schiava nigeriana che racconta in un libro la sua vita di prostituta disperata a Torino, che non con un embrione. Quanti milioni di uomini sadici consentono che migliaia di ragazze traballino sui tacchi in mutande, nel gelo, stuprate, costrette all’aborto decine di volte, sbattute a battere, se non abortiscono, fino al nono mese di gravidanza? Non faceva parte dell’utopia della nostra generazione che fossero uguali alle nostre figlie, e non solo davanti a dio? Perché, dunque, non una moratoria della prostituzione coatta, posta nell’agenda politica con la stessa enfasi della liberazione degli schiavi nell’ottocento?
O perché non una moratoria del lavoro dei bambini? Io li ho visti in India, a migliaia, nelle cave,
nelle officine fra gli acidi, e ho una certa dolorosa facilità a far lavorare la mia immaginazione al loro fianco. E tuttavia Giuliano Ferrara, alla saggia obiezione di Giuliano Amato che sarebbe bene amare i bambini almeno quanto gli embrioni, se la cava rapido: qui la Chiesa svolge già “il suo dovere missionario”. Ma non era della sfera pubblica e politica che stavamo parlando? Delle responsabilità dei laici rispetto ai valori? Anche sull’aborto la Chiesa svolge già i suoi doveri di magistero e di impegno missionario. O no?
La verità è che la moratoria dell’aborto sta nell’agenda politica, mentre il dolore delle prostitute e dei bambini no. E la ragione per cui sta nell’agenda politica è che la signoria dell’immaginario collettivo e dei canali attraverso cui si struttura è saldamente nelle mani degli uomini. E gli uomini hanno paura: della disperata povertà morale del nostro paese e della nostra sfera pubblica, del poco tempo che resta in tante vite adulte per rammendare i disastri di mille appassionate dissipazioni e della poca cura che si è dedicata alla vita e alle vite. E, avendo paura, fischiano nel buio: si affidano a una bianca mantella e riconsegnano alla madre e alle madri la sollecitudine del riscatto. Tuttavia, come spesso accade loro, hanno anche fretta, non hanno tempo per le persone: devono correre, “trascendere”, sistemare i ramponi per la prossima scalata, gettare il cuore oltre l’ostacolo. E perderlo.
Questo articolo è stato pubblicato su “il Riformista” il 9 gennaio