Siamo negli anni ’40 e Tsili è una ragazza ebrea sfuggita, quasi per caso, alla cattura dei nazisti. La ragazza era stata abbandonata dalla famiglia (per accudire la casa in loro assenza), mimetizzatasi in un vecchio capanno è stata ignorata perfino dai nazisti, quindi è sopravvissuta.
Tsili si nasconde in un bosco che dovrebbe trovarsi in Ucraina vicino al confine tra Romania e Ucraina e costruisce una sorta di “nido” con foglie e sterpaglie. Arriva Marek, anche lui ebreo sfuggito alla cattura, cerca in lei un rifugio e una compagnia dopo un mese di girovagare nei boschi. A loro modo (o meglio a suo modo) si ameranno e lei alla fine dell’inverno correrà fino al mare dove c’è un gruppo di raccolta di ebrei, sopravvissuti ai campi di concentramento, in attesa di imbarcarsi verso la Palestina.
Amos Gitai gira un film con postazione fissa, molto più teatrale che cinematografico dove, oltre alle espressioni dei volti, sembra che i suoni svolgano un ruolo di primo piano nella narrazione. Colpi sparati da cannoni e boati di aerei sono frammisti al cinguettio di uccelli e si alternano allo scrosciare della pioggia. Quando cambierà scena sarà il fruscio del vento sulle fronde degli alberi ad annunciarlo. Poi, solo verso l’ultima parte, il racconto che spiega la vera storia di Tsili è lasciato alla voce narrante fuori campo rispetto alla scena nell’ospedale dei sopravvissuti. Un particolare importante è che tutto il film è parlato in yiddish, la lingua della diaspora europea. Si chiude la vicenda con la splendida musica di un violinista estraneo alla narrazione, che esegue il suo pezzo lasciando il pubblico estasiato e con i filmati di repertorio – che provengono dall’Istituto Yiddish di New York – in bianco e nero che riprendono tanti bambini e ragazzi ebrei prima della Shoah.
C’è chi ha riscontrato nella scena centrale del nido un riferimento esplicito al famoso quadro di Klimt L’abbraccio, parte di un trittico. In effetti Amos Gitai è un regista colto, interessato a tutte le arti e laureatosi in Architettura a Berkeley. Suo padre è stato un architetto della Bauhaus, fuggito dalla Germania nazista e stabilitosi in Palestina nel 1934.
Per questo film Gitai si è ispirato al romanzo Paesaggio di bambina di Aharon Appelfeld che disse a Philip Roth: «La realtà dell’Olocausto supera ogni immaginazione. Se io fossi rimasto fedele ai fatti, nessuno mi avrebbe creduto. Invece, scegliendo una ragazza, un po’ più grande di quanto fossi io all’epoca, ho sottratto la ‘storia della mia vita’ alla morsa della memoria e l’ho consegnata alla creatività.».
La rappresentazione essenziale, la durezza delle immagini scarne, l’assenza di dialogo contribuiscono a comunicare la violenza della solitudine e della paura. Anche il rapporto di Tsili con Marek è primario e primitivo. Rimarrà incinta.
Così afferma il regista: «Ho voluto che la storia di Tsili fosse incarnata da tre protagoniste: due attrici, Sarah e Meshi, che hanno età diverse, e una voce femminile, quella di Lea Koenig. È come se nelle biografie di questa generazione di giovani donne sopravvissute, distrutte dall’Olocausto, ci fossero degli enormi buchi. Come se gli anni della giovinezza e del piacere fossero stati loro sottratti, e mai restituiti».