Un giorno d’aprile del 2000 Erick Packer, New York, 28 anni, esce di casa per andare dal barbiere. Non vi farà mai ritorno. Il suo è un viaggio lungo un giorno, ma anche lungo tutta una vita e un’epoca, l’ epoca del ‘tempo e del denaro’ come mi dice Don DeLillo, l’autore di Cosmopolis, il libro di cui Packer è l’eroe. Dopo libri di culto come Underworld e Rumore bianco lo scrittore di origine italiana ha scritto un libro asciutto, scarno, decisamente smilzo, che ha provocato qualche sconcerto nella critica americana. John Updike sul New Yorker lo definisce bellissimo, ma noioso, sul New York Times Michiko Kakutani lo liquida senza pietà.
A me fa l’effetto di un quadro di Bruegel, all’inizio non vedi nulla, ti sembra pura superficie, poi non la smetti più di guardare i singoli particolari uno per uno e l’insieme da superficie colorata ti appare per quello che è, un mondo. Non sembri un paragone fuori registro. Nel suo viaggio Packer incontra un bel numero di mostri postmoderni.
DeLillo lo incontro a Roma dove qualche sera fa ha letto un suo testo alla basilica Massenzio per il festival internazionale Letterature. E’ serio, attento. L’intervista comincia dallo scioglimento del mistero della data posta in apertura del libro. Ingannata dall’uscita del libro nel 2003, quasi in contemporanea in Italia e negli Stati Uniti, perché, gli chiedo, l’ha datato all’aprile 2000, voleva dare un effetto visionario, anticipare l’11 settembre?: «In effetti il libro era quasi finito l’11 settembre» risponde. «Ma dopo il crollo delle torri mi sono interrotto, mi sono preso sei settimane di pausa per scrivere un saggio sugli attentati. Quando ho ripreso in mano Cosmopolis ho trovato che non c’era niente da cambiare. Il libro è dedicato al mondo come era prima dell’11 settembre, agli avvenimenti del decennio precedente, alla frenesia finaziaria degli anni ‘90».
A me sembra un racconto di distruzione e di dolore.
«In particolare racconto il desiderio di un uomo potente di provocare la propria distruzione».
Dove vede le radici di questa volontà di autodistruzione, che nelle sue descrizioni sembra coinvolgere tutta la città?
«Il mio personaggio è un giovane brillante, spietato e ricco. Quella mattina si sveglia con una strana suggestione di morte. Lui stesso si sente mortale. Non gli era mai successo. Si fa la traversata di New York, fa numerosi incontri, mentre è dal barbiere gli ritorna il ricordo del padre, morto giovanissimo. Per la prima volta dubita di se stesso, avverte che tutto ciò per cui ha lavorato è senza senso, cerca di accelerare il crollo, bruciando denaro nello yen. L’eroe vive l’intera sua vita in un viaggio lungo un giorno. Il futuro che fu entra nel presente, sottile come un foglio di carta. Ogni cosa è accelerata e in qualche strano modo deve morire».
A proposito dell’eroe di un giorno, di sicuro avrà pensato all’”Ulisse” di Joyce, all’odissea di Leopold Bloom.
«Non ho potuto fare a meno di pensarci, ma non volevo scrivere un Ulisse contemporaneo. Tra l’altro c’è una coincidenza curiosa, una scena importante del mio romanzo è ambientata nella 47^ strada, proprio dove una volta c’era il Molly Bloom Pub. Se ci fosse stato ancora, avrei scelto un altro posto».
Certo non potrebbero essere più differenti la carnale e accogliente Molly e le donne fredde e temibili che circondano il suo protagonista.
«A modo suo il miliardario rispetta le donne. Sono donne una guardia del corpo, la sua responsabile del settore finaziario, la sua teorica di fiducia, la personal trainer. E naturalmente c’è la moglie».
Chiarisco. Non mi interessa se lui sia o meno rispettoso delle donne. Mi colpisce che le donne che incontra siano forti e distanti.
«Se appaiono così distanti è perché sono funzionali al tempo accelerato che mi sembrava il più adatto a quello che volevo raccontare. Sono uomini e donne che vanno e vengono, in flusso continuo. Sono brevi incontri che hanno il ritmo che questo romanzo richiedeva. Nella traversata di New York incontra la moglie tre volte. Al quarto e ultimo incontro quasi se ne innamora».
A un certo punto il giovane miliardario si spara a una mano. Perché conferisce al dolore fisico la dignità di un’esperienza conoscitiva?
«E’ l’unico modo per un uomo così clinicamente autoreferenziale per uscire da se stesso, vedere gli altri. A un certo punto della giornata vede un uomo che si dà fuoco per protesta. Per la prima volta sente un’empatia per un’altra persona che si sacrifica per un’idea».
Nei suoi libri lei ha sempre dato letture molto personali della storia americana recente. Packer passa quasi tutto il giorno sulla sua grande limousine, e davanti a lui succede di tutto: manifestazioni no global, performance, il funerale di un rapper, borse che crollano, topi che volano. E su tutto scorre una scritta: uno spettro si aggira per il mondo, lo spettro del capitalismo. C’è un senso? Nel descrivere questa New York-Cosmopolis voleva dire qualcosa a noi lettori?
«Naturalmente non c’è nessun messaggio. E’ quello che avviene. Mi sembra che questa giornata di Packer sia l’ultimo giorno di un’era particolare, tra la fine della guerra fredda e l’attimo iniziale del terrorismo. Io non parlo né di politica né di violenza, ma del denaro che accelera il tempo, di quella gran smania che aveva preso tutti negli anni ’90, gli anni dell’impresa e delle celebrità, del capitale e delle tecnologie. Il tempo era più rapido. Poi un bel giorno, tra marzo e aprile del 2000, i mercati azionari sono crollati, il Nasdaq è caduto, e tutto è cambiato, tutto è finito in un giorno. Nel libro descrivo il mondo che c’era prima».
Non le sembra che negli ultimi due anni tutto stia andando più in fretta? Le torri, due guerre, la nuova forma del mondo.
«E’ vero, gli avvenimenti sono precipitati, ma non la nostra percezione del tempo. Non è più cosi accelerata come gli anni novanta, quando era dominata dalla tecnologia e dal denaro, quando eri consapevole delle ore, dei minuti, dei secondi in giorni in cui poteva succedere tutto. Ora siamo in un’epoca nuova, nell’età del terrore. E’ di nuovo visibile un conflitto tra passato e futuro, il passato del fondamentalismo, il futuro della tecnologia».
Don DeLillo, Cosmopolis, Traduzione di Silvia Pareschi Einaudi, 184 pagine 16 Euro