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Microcritiche / Non c’è sogno americano per l’architetto ebreo Lászlò

12 Febbraio 2025
di Ghisi Grütter

THE BRUTALIST – Film di Brady Corbet. Con Adrien Brody, Felicity Jones, Guy Pearce, Joe Alwyn, Raffey Cassidy, Isaach De Bartolé, Stacy Martin, Emma Laird, Jonathan Hyde, Alessandro Nivola, Gran Bretagna 2024. Sceneggiatura di Brady Corbet con Mona Fastvold, fotografia di Lol Crawley, musiche di Daniel Blumerg.

The Brutalist” è un filmone di 3 ore e 35 minuti diretto dal regista Brady Corbet, al suo terzo lungometraggio, ma non ci si accorge che sia così esageratamente lungo. La prima parte in effetti è girata molto lentamente e la “scoperta” dell’America, o meglio della Pennsylvania, segue i tempi di un emigrato ungherese ebreo che non parla troppo bene quella lingua. Siamo nel 1947 e László Tóth – o meglio Tóth László come dicono gli ungheresi – scampato dal campo di concentramento di Buchenwald, – è riuscito a salire su una nave che andava in America, mente la moglie Erzsébet e la nipote Zsófia (figlia della sorella) sono rimaste bloccate alla frontiera austriaca.
Si dà il caso che László sia un architetto talentuoso e abbia studiato alla prestigiosa Bauhaus, invisa ai nazisti perché produceva case molto poco “germaniche” ma quelle che si sono chiamate del Movimento Moderno. Il titolo del film presenta una certa imprecisione perché con Brutalism – che viene da béton brut cioè il cemento armato – in Inghilterra è stata chiamata una certa architettura del tardo moderno mentre la Bauhaus (1919-1933) era precedente e il protagonista è mitteleuropeo. «L’architecture, c’est, avec des matières brutes, établir des rapports émouvants» scriveva Le Corbusier nel 1923.
Di film su architetti moderni sono stati fatti vari a cominciare dal famoso “La fonte meravigliosa” di King Vidor del 1949 interpretato da Gary Cooper, al cui film Corbet forse vorrebbe rifarsi, ma qui non mi pare che l’architettura costituisca l’elemento principale del film. È piuttosto la rappresentazione di un conflitto di potere, di personalità che si scontrano, della commistione tra ammirazione e disprezzo, dell’invidia della genialità, del razzismo e della umiliazione e, naturalmente, della demistificazione dell’American Dream.
László tenta di rifarsi una vita nell’America di fine anni 40, ma pagherà l’insuccesso a sue spese quando con orgoglio sarà costretto a convivere con la fame, la miseria, il razzismo e la diffidenza della gente nei suoi confronti. L’apparente accoglienza e generosità – del cugino Attila (interpretato da Alessandro Nivola) e del ricco imprenditore Harrison Lee Van Buren (interpretato da Guy Pearce) – si rivelano ipocrite o per lo meno ambigue. “Per alcune persone non è sufficiente possedere l’arte. Vogliono possedere anche l’artista”, ha spiegato il regista.
László è tormentato, diventerà drogato di eroina, ancora una volta sarà vittima di una storia che continua a perseguitarlo e cerca di resistere come può. La colonna sonora di Daniel Blumberg amplifica il senso di oppressione accompagnando László nel suo incubo.
Quando finalmente lo raggiungerà la moglie, nonostante il grande amore che lui è convinto di avere per lei, László è piuttosto assente e molto poco fisico. Da un lato ha paura di farle del male (lei soffre di una forte osteoporosi che la costringe su una sedia a rotelle) dall’altra, è troppo preso dal suo narcisismo artistico, si sente in colpa nei suoi confronti e si vergogna di come è diventato: Erzsébet è una donna pulita, onesta con una grande dignità e, in qualche modo gli funge da super-io. László Tóth è un sopravvissuto, un ebreo europeo che non sarà mai americano, più simile a un personaggio di Isaac Singer.
Non voglio raccontare di più, il film merita di essere visto nonostante l’assenza di un po’ di sintesi. Adrien Brody è spettacolare e la sua interpretazione di László Tóth, ricalca con grande espressività le vicende della propria famiglia tornando in un terreno emotivo già evidenziato ne “Il pianista” di Roman Polanski, con cui vinse l’Oscar nel 2003 come migliore attore.
Ma anche Guy Pearce, nei panni di Harrison Von Buren, fornisce una delle sue migliori performance.
Anche se le storie sono molto diverse, a me “The Brutalist” ha ricordato in qualche misura “Il gigante” del 1957 di George Stevens, sia per la lunghezza, sia per lo scontro tra due uomini con una personalità forte e diametralmente opposta, uno estremamente ricco, l’altro povero ma estremamente ambizioso.
Girato in 70mm VistaVision “The Brutalist” ha ottenuto 10 candidature agli Oscar 2025, è stato premiato al Festival di Venezia con il Leone d’Argento, e ha già vinto tre premi ai Golden Globes, 9 candidature a BAFTA.

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