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Microcritiche / “Anora”, una favola che sembra vera

28 Novembre 2024
di Letizia Paolozzi

ANORA – Film di Sean Baker. Con Mikey Madison e Mark Eidelstein. Fotografia di Drew Daniels, prodotto dalla FilmNation Enterteinment e distribuito dalla Universal Pictures.

Il corpo è in gioco nella legge appena varata che rende la gestazione per altri “reato universale”. Sta al centro della scena con Marina Abramovic; lo smembra Carol Rama; in “Corpo umano” (Einaudi) Vittorio Lingiardi lo pensa intensamente.
E ancora nel film “Anora” che ha vinto la Palma d’oro del 77esimo festival di Cannes, abita un corpo “vestito di parole” (così Chiara Zamboni della comunità di Verona Diotima), per la verità quasi sempre svestito, la straordinaria Mikey Madison, spogliarellista esperta in lap dance, brillantini nei capelli, fiocchi tatuati sul dietro delle cosce, tanga nel quale i clienti infilano “Money, Money, Money”.
Anora che si fa chiamare Ani, ha 23 anni, lavora da stripper in un club o stamberga o topaia sessuale di Brighton Beach, la “Little Odessa” delle comunità russe e dell’Europa orientale, al confine con Coney Island.
Musica a palla, pertiche, privé e la macchina da presa sul didietro delle ragazze sedute sulle cosce dei clienti, in fila sulle poltrone. Fino al momento in cui improvvisamente li abbandonano per andare a godersi la visione di una scazzottata.
Nella topaia Ani ci lavora e non vuole sentirsi definire spregiativamente: prostituta. “I tuoi sanno che fai questo lavoro?” domanda uno sventato e lei sferzante: “La tua famiglia sa che sei qui?”.
Quando incontra Ivan-Vania Zhakharov (Mark Ejdelstein), ragazzino viziato, figlio di un oligarca russo, più ricco di Creso, drogato di coca e videogiochi, le sembra amore a prima vista.
Si trasferisce in villa, sulle rive dell’Hudson, piscina e televisori annessi, tra canne e giochi erotici. Arriva pure una settimana a Las Vegas per 15.000 dollari. I due, shakerando follie, sentimenti e risate, consumano sesso alla velocità di una luce stroboscopica e dal momento che in quella città si celebrano ogni anno 120.000 matrimoni, anche loro in pochi minuti diventano marito e moglie.
Fin qui, siamo passate dalla cupezza di una periferia povera e gelata al mondo parallelo della scommessa e del lusso. Non può durare. Nella villa dove i novelli sposi si sono installati, si presentano il pope Toros e due mafiosi un po’ tontoloni. Ani, offesa per le accuse di essere una escort manipolatrice che vuole appendere il cappello al chiodo, reagisce. Seguono gag esilaranti senza l’aiuto di torte in faccia o bucce di banana sotto i piedi.
Però il lieto fine è escluso come escluso è che la zucca si trasformi nel cocchio di Cenerentola. Compaiono i genitori di Ivan, oligarchi senza cuore: questo matrimonio non s’aveva da fare. Bisogna annullarlo. Ognuno deve stare o tornare al suo posto. Le classi sono classi e non te ne separi facilmente: “l’american dream” somiglia a una bolla di sapone.
La qualità di questo film dipende (oltre che dalla bravura degli attori di cui alcuni mai visti prima) dal regista, sceneggiatore, montatore, produttore americano Sean Baker. Lui è un vero indipendente nel cinema indipendente; ha girato “Tangerine” con un iPhone 5 e “Anora” in 35 millimetri, con lenti anamorfiche; ha ripreso gli lgbtq+, gli sfruttati, gli emarginati, i dimenticati dalla società e dalla politica americana. Racconta in modo gioioso
storie di disperazione.
Se siamo in cerca di definizioni, secondo me “Anora” è un film femminista perché la protagonista, Ani, difende con dignità il suo corpo e la sua anima. E se ammettete il linguaggio un po’ gergale, “Anora” è un film intersezionale dove il regista sta dalla parte di quell’America rigettata nel fango, perduta e umiliata.

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