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Microcritiche / Richard Gere e la memoria di un figlio scomparso

2 Agosto 2024

ERA MIO FIGLIO – Film di Savi Gabizon. Con Richard Gere, Susanne Clemént, Diana Kruger, Marnie McPhail, Shauna Macdonald, Jessica Clement, Tomaso Sanelli, Gordon Fulton, Wayne Burns, Stuart Hughes, Christina Song, Kevin Hanchard, Canada 2024. Fotografia di Paul Sarossy, musica di Owen Pallett.

di Ghisi Grütter

Il film “Era mio figlio” è un remake canadese di un film israeliano scritto e diretto dal pluripremiato regista Savi Gabizon, traduzione in lingua inglese del precedente “Ga’Agua – Longing” del 2017 girato in ebraico dallo stesso regista.
Spesso però le trasposizioni di un film in altre culture – nonostante l’utilizzo di attori di fama internazionale – non hanno gli stessi effetti e non riscuotono lo stesso successo della critica. Pensiamo ad esempio come il cileno “Gloria” di Sebastian Lelio del 2013 – un ritratto femminile di stupefacente onestà e disarmante sensibilità – cambi nella sua trasposizione statunitense in “Gloria Bell” del 2018 nonostante l’ottima interpretazione di Julianne Moore. Così anche il suggestivo film argentino “Il segreto dei suoi occhi” di Juan José Campanella del 2009 perde mordente nella versione statunitense del 2015 con Nicole Kidman, Julia Roberts e Chiwetelu Umeadi Ejiofor. Un altro esempio, questo sicuramente meglio riuscito grazie alla regia di Kore’eda Hirokazu, è il giapponese “Father and Son” del 2013 elaborato sullo stesso tema che aveva già commosso l’anno prima con il film franco-israeliano “Il figlio dell’altra” di Lorraine Lévy, dove il protagonista scopre un giorno che suo figlio biologico è stato scambiato alla nascita con un altro bambino.
Qui in “Era mio figlio” troviamo Daniel Block (bene interpretato da Richard Gere), un ricco industriale newyorkese senza figli, che un giorno riceve la telefonata di una sua ex fidanzata (interpretata da Susanne Clemént, attrice-feticcio del regista canadese Xavier Dolan) che non vedeva né sentiva da vent’anni. In un brevissimo incontro in un caffè di Manhattan lei gli racconta un paio di cose davvero sconcertanti: la prima è che quando si lasciarono vent’anni prima, era incinta e che da quella gravidanza nacque un bambino fantastico; la seconda, invece, che in un recentissimo incidente d’auto, il ragazzo diciannovenne è morto sul colpo. Questa rivelazione cambierà per sempre la vita di Daniel che intraprenderà un viaggio alla ricerca della conoscenza postuma del figlio, della messa a fuoco della sua identità, tutto condotto con determinata ossessione come una sorta di laboratorio nel quale si esplorano gli aspetti nascosti della paternità al di là delle responsabilità.
A mio avviso “Era mio figlio” non è un film sull’elaborazione del lutto come scrivono alcune critiche. Nel modo narcisista e invadente con cui aveva vissuto, Daniel penetra nelle vite degli altri alla ricerca di elementi che gli restituiscano la figura di un figlio mai conosciuto. Tutto avviene ad Hamilton, una cittadina canadese nella zona dei Grandi Laghi, nel sud-est del Canada, che si affaccia sulle rive occidentali del Lago Ontario. Ben fotografati da Paul Sarossy, il regista ci mostra i “luoghi” dove ha vissuto Allen a cominciare dall’ultimo: il ponte sul fiume dove è avvenuto l’incidente automobilistico che ha fatto perdere la vita al giovane ragazzo. Poi più volte Daniel va al cimitero, entra nel college dove ha studiato il figlio e, parlando con il Preside, scoprirà che Allen ne era stato anche espulso per aver scritto sul muro una sorta di poesia volgare dedicata all’insegnante di francese (interpretata da Diane Kruger) per cui aveva perso la testa. Quindi incontra la Professoressa, vede la panchina di fronte alla sua abitazione dove Allen sostava per ore in attesa di incontrarla (una sorta di stalking?)
Il quadro della personalità del figlio che si va componendo è tutt’altro che incoraggiante, ma come era stato in realtà Allen? Daniel cerca di ricostruirne le caratteristiche come in un puzzle, ricucendo racconti, frammenti di ricordi degli amici o di altri che lo hanno conosciuto. Era un ragazzo viziato e capriccioso oppure era un artista innamorato e incompreso?
Il film a un certo punto si sposta verso l’onirico mostrando la spirale della dolorosa follia in cui sembra cadere a poco a poco il protagonista.
Il tema della genitorialità e della sua importanza è molto sentito in Israele dove, ad esempio, è ammessa la surrogacy law dal 1996. A tale proposito c’è una intera serie su Netflix che affronta le varie problematiche connesse intitolata “A body that works” (leggi commento di Letizia Paolozzi).
Gabizon realizza il remake della versione israeliana del suo stesso film che era stato proiettato nella sezione Contemporary World Cinema al Toronto International Film Festival del 2017 ed era stato nominato per l’Ophir Award come miglior film. “Era mio figlio”, a sua volta, ha ricevuto il Premio del pubblico ai Venice Days alla 74ma Mostra del Cinema di Venezia e si affida soprattutto alla scrittura del regista per ricreare l’atmosfera di un film popolato da fantasmi e sensi di colpa.

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