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Microcritiche / L’insensatezza della guerra e i massacri senza contesto

24 Agosto 2024

Civil War – Film di Alex Garland. Con Kirsten Dunst, Wagner Moura, Cailee Spaeny, Stephen McKinley Henderson Casa di produzione A24, DNA Films, fotografia Rob Hardy, Usa 2024

di Letizia Paolozzi

Il Presidente (che ha attaccato dal cielo cittadini americani; sciolto l’Fbi; reclamato il terzo mandato e pasticciato con il suo impero mediatico: vi ricorda qualcuno?) recita davanti allo specchio: “Stiamo vincendo; li abbiamo battuti” mentre un carro armato gironzola per Park Avenue.
Ma chi precisamente è stato battuto? Per la verità l’esercito dei secessionisti (“Alleanza della Florida”, “forze occidentali del Texas e della California” cioè stati che per la precisione sono come il diavolo e l’acqua santa) aspetta di entrare nello Studio Ovale.
Così inizia Civil War, che oscilla tra road movie e trattato morale sulla violenza. “Da quella casa mi sparano. Vediamo se io riesco a ammazzarlo prima”. Esperimento quasi scientifico o frase paradigmatica per un’America che corre verso l’autodistruzione. Distopia? Mica tanto.
A proporre il film, l’interessante casa di produzione e distribuzione cinematografica e televisiva indipendente statunitense A24. Il suo capo, per il nome, si è ispirato all’autostrada A24 Roma-Teramo su cui stava viaggiando.
Sfilano camion pieni di cadaveri, fosse comuni, impiccati ancora vivi, civili asserragliati e una equipe di giornalisti spinti dal dovere di cronaca a testimoniare con le fotografie e i video l’insensatezza del reale. E della guerra.
Non immaginate una divisione tra buoni e cattivi, sinistra e destra. Unica, appena accennata spiegazione, l’odio per i migranti. “Dove sei nato?” Basta il colore della pelle e boom! un uomo viene abbattuto da un Conan il barbaro qualsiasi.
Il film procede tra immagini ferme in bianco e nero e vibranti sequenze a colori. D’altronde, in inglese si dice Shoot per sparare e per scattare. Point and shoot: inquadri e scatti; punti e spari.
Lee è la fotografa adrenalica, cinica, ma tormentata. Jessie è la fotografa più giovane in adorazione della maestra. Alla fine, le due donne si scambieranno il ruolo: quasi materna, protettiva, sacrificale l’una e cinica, decisa a offuscare l’empatia per una “buona” inquadratura, l’altra.
Alla fine, rispetto alla eccezionalità delle immagini (il film è costato 50 milioni di dollari) resta un dubbio perché manca qualsiasi accenno alle cause, alle motivazioni della guerra. Ambiguamente si dispiega soltanto una lotta assetata di morte. Forse, sta allo spettatore, spettatrice riempire il vuoto, l’irrealtà dal momento che a Gaza e in Ucraina i massacri sono reali.

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