Donne israeliane e palestinesi insieme per la pace
Di questi tempi fa poco effetto la sofferenza altrui.
Quella del rapper operaio Toomag Salehi condannato a morte per aver cantato “Donna, vita, libertà”; delle iraniane, delle afghane; quella degli ostaggi israeliani il 7 ottobre strappati alle loro case che hanno sperimentato tortura, solitudine, malattia, senso di abbandono.
Hai la sensazione che mentre si comprende il dolore dei palestinesi massacrati, dei tanti bambini uccisi, delle donne che si aggirano tra le macerie, non ci sia posto per l’angoscia di chi non conosce la sorte dei propri famigliari, degli amici.
Anche il 25 Aprile, giorno che ricorda la liberazione dal nazifascismo, è segnato dalla rabbia dei filopalestinesi che accostavano la svastica alla stella di David perché “Siete come i nazisti” rivolto alla Brigata ebraica e i giovani della Comunità che di rimando gridano “Terroristi, terroristi”.
Esplode nel peggiore dei modi la bolla retorica della “memoria condivisa”?
Nelle università americane vengono arrestati i manifestanti che vogliono la Palestina “from the River to the Sea” (alla Columbia occupata c’è stata l’irruzione della polizia), in quelle francesi, in quelle italiane c’è poco spazio per l’empatia.
Intanto, continuano a rimbalzare le cifre sul numero degli ostaggi ancora in vita: 139, 40 o nessuno? Hamas fa trapelare la notizia che in cambio di una tregua potrebbe consegnare 33 ostaggi scelti tra i più fragili. Ma vuole la fine del conflitto. Non solo un cessate il fuoco temporaneo. Israele promette di non fermarsi fino alla “vittoria totale” e minaccia l’invasione di Rafah.
Israele, sempre più isolata dal mondo, respinge l’idea di uno stato palestinese: Netanyahu intende continuare la sua guerra di religione con Gaza.
D’altronde, anche gli stupri compiuti da Hamas e dalla Jihad islamica sia il 7 ottobre sia contro gli ostaggi israeliani prigionieri sono avvolti nel silenzio, compreso quello di una parte del femminismo.
Probabilmente, in tanti ritengono che “la colpa” ricada sul regime di
apartheid israeliano. Per parte loro, dice Angela Godfreey-Goldstein, attivista per i diritti umani che vive in Israele, gli israeliani giudicano “tutti i gazawi come in qualche modo colpevoli e meritevoli di una punizione collettiva” (
https://www.hakeillah.com/una-prospettiva-pacifista/).
Dunque, posizioni intransigenti, minacce, sopraffazioni, manicheismi, schieramenti. Non solo in Medio Oriente, in Ucraina. Nessuna possibilità di comunicare, di identificarsi nello stato d’animo dell’Altro. L’odio si accumula; il cielo è coperto dalla nuvola della vendetta.
Eppure esistono le eccezioni. Aprendo l’incontro alla Casa della Cultura di Milano di “Mai indifferenti. Voci ebraiche per la pace” (ebree e ebrei italiani che avevano pubblicato il loro appello il 13 febbraio sul “Manifesto” –
https://ilmanifesto.it/mai-indifferenti-appello-di-voci-ebraiche-per-la-pace) Renata Sarfati ha spiegato: “Questo appello è nato non per caso ma da relazioni profonde. Di fronte alle atrocità del 7 ottobre e alla successiva spaventosa reazione dell’esercito israeliano, ci siamo ritrovate tra amiche – all’inizio eravamo solo donne – per confrontarci sul sentimento di disperazione, di spaesamento, d’impotenza di fronte a ciò che stava accadendo. È stata una di noi, Joan Haim, che ha sentito fortemente la necessità di fare qualcosa di concreto, di costituirci non come gruppo (non volevamo fare l’ennesimo gruppo) ma con una dichiarazione: Mai indifferenti”.(
Qui la registrazione dell’incontro con l’intervento di Renata Sarfati)
Per loro e per gli uomini che le ascoltano, la guerra non è la risposta. Respingono “l’uso strumentale e distorto di parole gonfie di sangue e di lacrime quali antisemitismo, genocidio, sionismo, disumanizzazione dell’altro”; chiedono la liberazione degli ostaggi, la nascita dello Stato di Palestina, una pace giusta.
Rispondono tenendo conto della vulnerabilità, dell’interdipendenza, delle relazioni e delle pratiche inventate e da inventare del femminismo. Quasi mai la forza armata può risolvere i problemi del mondo.
Questo significa guardare alle associazioni, ai coraggiosi uomini e donne israeliane e palestinesi che cercano “un’altra politica fatta da persone che vedono e si riconoscono nel dolore dell’altro anche andando contro istintivi sentimenti di rabbia”.
Sono una minoranza? “Ma sono punti di partenza per ricominciare”.
Segnala su Facebook