L’ultima volta ho scritto che avrei riparlato del libro di un vecchio amico: L’uomo che parlava alle statue. La storia di una famiglia, la storia di Trieste, di Roberto Weber (Bottega Errante Edizioni, 2023). Sta bene recensire i libri degli amici? Forse no. Trovo questa scappatoia: lo confesso. E aggiungo che non ho la pretesa di recensire nulla. (Parola, recensire, che stando all’etimologia vorrebbe dire peraltro tornare a dir bene di qualcosa).
Insomma, proseguo pubblicamente un dialogo amicale. E non escludo, in questo momento della storia e della politica, che possa interessare anche ad altri.
Si parla di confini, di guerre, di passioni identitarie e politiche che portano a catastrofi personali e collettive. Che istruiscono difficili storie di formazione. In un intreccio di vocazioni urbane e di sentimenti familiari.
Partiamo, come il libro, dal “personaggio” Trieste. Le immagini sono quelle di una piazza, una volta piazza Grande e oggi piazza Unità. Estate 1914: una folla «compatta, ordinatissima» e forse anche «commossa» saluta i feretri dell’arciduca Ferdinando e della moglie duchessa Sofia, assassinati a Sarajevo e riportati “a casa” dalla Viribus Unitis. È il lutto dell’Impero austroungarico che porterà alla Grande guerra. Quattro anni dopo la piazza si riempie con «entusiasmo» per l’arrivo del re d’Italia Vittorio Emanuele III. Un entusiasmo che diviene «esaltazione e autentico rapimento» quando Mussolini in persona, nel ’38, annuncia alla folla le leggi razziali. E infine un grande sventolio di tricolori accoglie nel 1954 i bersaglieri che «portano la “seconda redenzione”», quando finisce l’amministrazione jugoslava e alleata della città.
L’autore parla, direi con qualche affetto e insieme riserva ironica, dell’amore triestino per il “decoro”, inteso «non come ornamento… ma come valore, senso profondo di appartenenza alla comunità». Una compostezza, una «sorta di nobiltà interiore che ci induce sempre a fare la cosa giusta nel momento giusto».
Dietro questa facciata ci sono le storie e le passioni delle persone. Un nonno e un padre distanti, in cerca di se stessi. Una nonna e una madre presenti. Tra loro parlano in sloveno, ma ai bambini rigorosamente in italiano . Una vecchia foto ritrae il padre e lo zio, e negli sguardi dei due fratelli già si intuisce un destino. Che porterà lo zio a essere “giustiziato” dagli jugoslavi in quanto collaboratore dei fascisti (si era illuso che fare il traduttore durante il processo Ciano non lo avrebbe compromesso). Mentre il padre, pur avendo indossato una divisa tedesca, sarà salvato da un vicino di casa, comunista e sloveno, che «ha garantito per tutti» con i partigiani di Tito quando arrivano.
Roberto Weber racconta di aver firmato una sua «personale tregua armata con “gli italiani”» quando, cameriere a Londra, provò una «infinita ebbrezza» quel 14 novembre del ’73 allo stadio di Wembley, quando l’Italia vinse sull’Inghilterra.
Quanto ai dialoghi con le statue, solo verso la conclusione del libro si apprende qualcosa dello scambio con la bronzea effige dell’”eroe” Nazario Sauro.
Quella passione “risorgimentale”, irredentista, nazionale, identitaria, fu incubatrice del fascismo?
Forse no, si interroga l’autore. Certo furono fascistissimi i suoi figli Italo e Libero . Lui no, «era ok». Ma la sua vera colpa, oltre alla responsabilità, suo malgrado, che in suo nome sia stata «narcotizzata» una città, è stata l’aver lasciato i figli da soli.
E qui le storie personali diventano politica. A un certo punto in Europa «intere generazioni sono cresciute senza padri» e pochi hanno registrato «i guai che ciò ha provocato e il dolore che ne è derivato».