Pubblicato sul manifesto il 24 maggio 2022 –
Credo che Massimo D’Alema abbia davvero voluto bene a Enrico Berlinguer. È certo, per me, che la figura del segretario comunista di cui domani (25 maggio 2022) ricorre il centenario della nascita gli ha ispirato le cose migliori che ha scritto. Penso al libretto pubblicato con Donzelli nel 2004, nel ventesimo anniversario della morte di Berlinguer, con il racconto del suo ultimo viaggio a Mosca, nel 1984. Lo accompagnava con Paolo Bufalini. Giorni fa in un intervento pubblico – ora sul sito Striscia rossa – si è autocitato descrivendo la caparbietà con cui l’inventore del “compromesso storico” si rifiutava di uscire in pubblico senza aver recuperato dai bagagli un “cappellino tirolese, abbastanza ridicolo in quel contesto”, portato da casa per evitare di essere fotografato con un colbacco: certamente qualcuno glielo avrebbe offerto nel freddo di un febbraio a Mosca.
È un’immagine che dice molto del rapporto che il capo del comunismo italiano viveva nei confronti del comunismo sovietico. Un mondo – altra testimonianza di D’Alema – che per lui “era senza futuro”.
Ma anche nel discorso di cui parlo il ricordo di quell’uomo, col suo “fascino” dovuto al “contrasto tra l’apparente fragilità, la timidezza, il garbo che aveva nel rapporto umano e la forza estrema della sua personalità, persino la sua testardaggine e il suo candore”, ispira il nostro autore.
Pensare a Berlinguer suscita “un sentimento pericoloso, che è la nostalgia”. Una parola “complessa” e imparentata con il dolore di una malattia, dice D’Alema, il quale però si è documentato, scoprendo un autorevole parere: la nostalgia è “una risorsa esistenziale e quel tanto di tristezza che porta con sé si mescola insieme all’appagamento per quello che si è vissuto e quindi migliora l’umore…” Quindi – confessa – “io mi abbandono felicemente alla nostalgia, confortato dalla ricerca clinica più recente, che rende la nostalgia accettabile, migliora l’umore e migliora, dice, anche la convivenza con gli altri”.
Non sempre, diciamo, ho condiviso le posizioni politiche di D’Alema, ma qui mi sembra indicare una via preziosa per una sinistra la cui parte per certi versi migliore è affetta da una nostalgia, diciamo ancora, mal digerita. Accettate, accettiamo, cari compagni (l’invito è in primis agli uomini), di essere un po’ nostalgici, ma soprattutto questo ci serva a convivere meglio con gli altri, evitando di soccombere a forme di astioso e rancoroso rimpianto. Non sarebbe il principio di una buona politica che ci manca?
Ma il testo tira in ballo anche un’altra parola complessa quanto importante: utopia. C’era molto di utopico nel proposito di Berlinguer di contribuire a rifondare una nuova idea e una nuova pratica politica di un partito che si ostinava a chiamarsi comunista. Così facendo – riassume D’Alema – i comunisti italiani ruppero di fatto con Mosca senza farsi accettare dai vertici dell’Occidente. E questo isolamento, fino alla tragedia dell’assassinio di Aldo Moro, rese impossibile l’alternativa di cui l’Italia aveva bisogno. Un fallimento tanto per il Psi di Craxi, quanto per il Pci di Berlinguer.
Eppure D’Alema riconosce che le ultime intuizioni di questo leader “sconfitto” – un nuovo internazionalismo, l’attenzione profonda al femminismo, all’ambientalismo, al rapporto tra nuove tecnologie e persona umana – “costituiscono una critica acuta e intelligente del capitalismo contemporaneo, che si è spinta molto oltre i confini culturali della tradizione comunista e marxista”.
Un’attualità di Berlinguer – dice però – “tra virgolette”. Io le toglierei.