Forse, ma non ne sono sicura, il femminismo menzionato come affare di donne e per le donne, si sta sfaldando. Non succede in un dibattito colto dove voci femminili individuano la misoginia più o meno nascosta degli uomini: il titolo di Rebecca Solnit recita: Gli uomini mi spiegano le cose. Riflessioni sulla sopraffazione maschile (Ponte alle Grazie, 2017). No, gli uomini non spiegano ma temono ciò che accade in tempo di guerra, dell’invasione dell’Ucraina da parte di Putin. In questo tempo di corpi stesi a terra, di mani che emergono dalle macerie, di bambini infagottati nei cunicoli, di luci che solcano il cielo nero, e dunque di morti, feriti, ricompaiono gli stupri.
E non vale la pena di rispondere a chi risolleva la solita falsa domanda sul “silenzio” delle femministe. Le femministe e molte, moltissime donne hanno sempre combattuto e combattono contro la violenza maschile. Il problema è tutto degli uomini.
Sappiamo degli stupri compiuti dai tedeschi in Belgio nel 1914, dai giapponesi a Nanchino nel 1937, dai soldati marocchini a Lanuvio, Velletri nel ’43, dall’Armata Rossa a Berlino nel ’45. Dai parà della Folgore in Somalia, dai Caschi blu a Haiti, ora dai russi (i “buriati” o mongoli della Siberia) a Bucha.
Il punto è che per decine di anni nel nostro tempo, come nei secoli passati, nei confronti degli stupri commessi da soldati durante uno scontro armato si mostrava indulgenza. Stalin per esempio parla del soldato che “dopo essere passato attraverso il sangue, il fuoco, la morte, vuole divertirsi con qualche donna e compiere qualche sciocchezza” (lo racconta lo storico Tony Judt in Dopoguerra. Come è cambiata l’Europa dal 1945 a oggi. Mondadori, 2007).
“La sciocchezza” va tradotta con una forma di annientamento del nemico, la volontà di umiliarlo, la necessità di calpestare la sua terra. Quando gli uomini si riposano dopo il combattimento, quando penetrano in un paese dopo l’assedio, quando si rilassano per la vittoria, la violenza diventa impossibile da arginare.
Nel 2008, la Risoluzione 1820 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu si fa carico della protesta drammatica delle donne: “Lo stupro e altre forme di violenza sessuale possono rappresentare un crimine di guerra, un crimine contro l’umanità o comunque un atto che afferisce al genocidio”.
Ma una risoluzione può poco di fronte all’odio.
“I mortali devono ammazzare, pensano che se non ammazzano non sono uomini”. Non sono io a dirlo ma Antigone nel testo poetico-filosofico La tomba di Antigone di Maria Zambrano (Se, 2014).
Per il sesso femminile, dal momento che circa il novanta per cento dei profughi dall’Ucraina sono bambini e donne, si può supporre che abbiano interesse a preservare la vita (dipenderà dal loro mettere al mondo?).
Fuggendo in così grande numero – certo, loro possono abbandonare il paese mentre il sesso maschile dai diciotto ai sessanta anni è costretto dalla ferma obbligatoria a restarvi – si può ipotizzare che sentano il loro corpo minacciato: un corpo scompare nel crollo di un palazzo, si lacera per un proiettile, viene oltraggiato, brutalizzato dall’abuso.
Si tratta di un incubo che perseguita le donne. Anche in pace, dove però ha importanza la legge e l’opinione pubblica e il giudizio della società nel limitare l’aggressione: con l’eccezione (tra gli altri paesi) della Polonia. Qui, in ragione del divieto di abortire, le profughe ucraine violentate non possono interrompere la gravidanza e daccapo si ripete la mancanza di rispetto per le scelte femminili.
Quanto al tempo di guerra, non c’è scampo e l’incubo del corpo sfregiato si traduce in certezza.
Il capo della polizia di Kiev, generale Andriy Nebytov, intervistato da Lorenzo Cremonesi (sul Corriere della Sera del 14 aprile) esclude ci sia stata “una deliberata politica russa delle violenze sessuali contro le donne ucraine” ma avverte che si sta investigando sui cadaveri di giovani donne, trovate svestite, con le mani legate dietro la schiena, nella regione di Kiev. Forse assassinate dopo lo stupro “o ripetuti stupri, magari da più soldati”. Le vittime sopravvissute non vogliono parlarne, per vergogna. Alcuni degli stupratori sono stati fucilati dai loro stessi comandanti. Il primo caso di violenza sessuale noto avviene il 9 marzo, poco dopo l’invasione del 24 febbraio. “All’inizio i soldati erano euforici, credevano che la guerra sarebbe durata molto poco e loro sarebbero stati accettati come liberatori”. Con l’allungarsi del conflitto “si è verificato un collasso della disciplina”. E la violenza è indisciplinata.
Il capo della polizia di Kiev usa esplicitamente il condizionale perché ancora non è del tutto accertato se si siano verificati o no degli stupri.
Eppure, guardando le immagini delle rovine di Mariupol e questa guerra che sembra voler ridisegnare la carta geopolitica post-globale, alla quale tante potenze indirettamente si iscrivono, viene da pensare che molto stia cambiando davanti ai nostri occhi. Anche rispetto allo stupro del quale prima gli uomini, le cosiddette autorità tacevano mentre oggi lo nominano e lo trattano come un crimine: lo stupro non rappresenta una conseguenza della guerra ma è guerra contro le donne e contro l’umanità.