In questo opaco, inquietante momento storico e politico abbiamo ascoltato, da Mattarella e Draghi in giù, che all’Italia serve uno sforzo unitario, simile a quello che risollevò il paese dalla catastrofe del fascismo e della guerra. Non mi sembra, per la verità, un paragone molto fondato, ma anche prendendolo per buono, sarebbe forse opportuno ripassare un po’ quella storia.
L’ho fatto grazie al libro – documentatissimo – di Giuseppe Pierino sulla figura, oggi quasi dimenticata, di Fausto Gullo, “Un comunista nella storia d’Italia” (Rubettino, 2021). Aldo Tortorella nella prefazione, confessa che nemmeno lui – nel Pci “dall’inizio alla fine” – conosceva bene il fatto che Gullo fu decisivo nella riunione del gruppo dirigente del partito sulla “svolta di Salerno”, il compromesso sul governo unitario per combattere con gli alleati i nazifascisti, rimandando alla fine della guerra la “questione istituzionale”: il destino della monarchia. I partiti di sinistra del CLN erano contrari. E lo erano anche i dirigenti comunisti. In quella riunione di due giorni, non verbalizzata proprio per l’acutezza delle tensioni, Togliatti – appena tornato dall’Urss – rischiava di rimanere in minoranza. E il libro racconta, sulla base di ricostruzioni pubblicate negli anni ’70 per iniziativa di alcuni partecipanti, tra cui Maurizio Valenzi, che fu l’intervento finale di Gullo a spostare la bilancia verso la posizione di Togliatti.
La storia di Gullo è avvincente, singolare. Nato a Catanzaro nel 1887 entra giovanissimo nel Partito socialista, si laurea in legge a Napoli nel 1907, e si lega a Bordiga, seguendolo nella scissione da cui nasce il Pc d’I. Fa parte del “Comitato d’Intesa” dei sette bordighiani in odore di trotzkismo (tra cui gli operai Ottorino Perrone e Carlo Venegoni) che si preparano a dare battaglia a Gramsci nel congresso del ’26. Ma poi riconosce la forza degli argomenti di Gramsci.
Quella “macchia” di estremismo, però, non si cancella. Gullo matura solitariamente la posizione che al ritorno di Togliatti ne fa il dirigente più vicino a chi pensava al “partito nuovo” e alla “democrazia progressiva”. È il primo a stupirsi quando viene nominato ministro dell’agricoltura nel secondo governo Badoglio (con Togliatti alla giustizia). Varerà decreti che anticipano la riforma agraria e che gli varranno l’appellativo di “ministro dei contadini”. Ma verifica da subito la difficoltà di intendersi con le posizioni liberali e democristiane. Togliatti lo vuole ancora al governo come guardasigilli, con il delicatissimo compito di gestire l’amnistia per i fascisti e di rintuzzare l’accanimento della magistratura contro i partigiani.
Ma la figura e la cultura di Gullo, comunista e illuminista, laico e democratico, lasciano tracce forti sulla carta costituzionale: è per la parità tra i sessi (vorrebbe le donne nella magistratura), per l’autonomia della giustizia – non senza importanti distinguo – è contro il regionalismo, di cui prevede i danni per il Meridione. E soprattutto dissente da Togliatti che scommette sull’alleanza con De Gasperi. Anche se per responsabilità e amicizia voterà l’articolo 7 sul Concordato.
Le sue posizioni libere e autonome non gli fruttano simpatie nel Pci. Alla morte di Togliatti subirà una sostanziale emarginazione. Appoggia il ’68, è contrario alla radiazione del “Manifesto”. E continua a scrivere a Berlinguer, Natta, Ingrao: cerchiamo i cattolici veramente democratici, non illudiamoci sulla Dc!
Prima della morte (3 settembre ’74) diventa presidente della Lega Italiana Divorzio, a fianco di Pannella nella vittoria del referendum. “Persistere mutando”, riassume con simpatia Tortorella.