NAPSZÁLLTA (SUNSET) – Film di László Nemes. Con Juli Jakab, Susanne West, Vlad Ivanov, Björn Freiberg, Levente Molnàr, Urs Rechn, Judit Bàrbos, Sàndor Zsòtèr, Balàzs Cukor, Ungheria e Francia 2018. Direttore della fotografia Mátyás Erdély, musiche di László Melis, scenografia di László Rajk –
La storia del Novecento continua ad affascinare scrittori e registi, anche i più giovani. L’Europa austroungarica era nel massimo del suo splendore e Vienna sembrava essere la capitale indiscussa della cultura: Sigmund Freud per la psicoanalisi, Gustav Mahler per la musica, Arthur Schnitzler per la letteratura, Adolf Loos per l’architettura, Gustav Klimt ed Egon Schiele per la pittura. Ma siamo poco prima dello scoppio della Prima Guerra Mondiale e in questo film presentato in concorso a Venezia, l’inizio del secolo XX è visto con gli occhi del XXI: non c’è nessuna ideologia e non c’è speranza.
Il titolo del film ovviamente si riferisce al tramonto dell’atmosfera fin-de-siècle che portò alla definitiva fine dell’Impero Austro-Ungarico, trascinando con sé lo sfarzo e la magnificenza di quello che fu, per un certo periodo, il centro del mondo. La crisi dei valori ottocenteschi di tutta l’Europa porterà a una dura e lunga guerra.
Siamo nel 1913 a Budapest, una città che era diventata importante (la principessa Sissi era stata incoronata Regina d’Ungheria nel 1867), ma che vediamo divisa tra chi era ancora molto legato, per affari economici, all’impero asburgico e i sovranisti, come li chiameremmo oggi. Ma i ribelli, più che rivoluzionari, sono visti come un gruppo di banditi, di persone assetate di sangue che desiderano vendetta e vogliono più distruggere uno status quo che costruirne uno alternativo.
Tutto è visto attraverso lo sguardo di Irizs Leiter (interpretata da Juli Jakab), tornata in Ungheria da Trieste dove era stata mandata a dodici anni. Va nella cappelleria che porta il suo nome, semidistrutta, quando lei aveva solo due anni, in un incendio nel quale avevano perso la vita i suoi genitori. Si presenta per un lavoro da modista al Mr. Oskàr Brill (interpretato da Vlad Ivanov), l’attuale proprietario. Da qui in poi varie vicende sembrerebbero costruire un thriller. Tutte le persone che incontra le consigliano di andare via e aumenta l’aspetto surreale: Irizs ha un fratello di cui non sapeva l’esistenza e man mano scopre che è accusato dell’omicidio di un conte e considerato da molti pazzo e sanguinario. La maggior parte del film è improntata sulla ricerca del fratello Kàlmàn e mostra i dubbi che lei nutre sia nei confronti del nuovo proprietario del negozio e dei suoi amici – palesemente filo-austriaci – sia nei confronti dei ribelli capeggiati dal fratello. Il comportamento della protagonista è decisamente ambiguo, sempre irrequieta e incerta tra l’eleganza decadente, ma marcia e corrotta, e l’ardore incendiario della rivolta.
Come in “Il figlio di Saul” László Nemes usa lunghi piani sequenza con la macchina da presa ad altezza spalla che, quando non inquadra nei primi piani la protagonista eternamente in scena, la segue ovunque. Il continuo bisbiglio e il rumore fuori campo costituiscono il sonoro che Tamas Zanyi amplifica con l’aumentare del conflitto narrativo. E come Saul che cercava ossessivamente un rabbino che reciti il Kaddish per il figlio nel campo di concentramento, Irisz cerca in modo ostinato il fratello attraversando la città, con carrozze, tram, treni, inserendosi in situazioni piuttosto rischiose. Si muove costantemente, fugge sempre da qualcosa o qualcuno, non sta mai dove le dicono di stare e non si fa scoraggiare dai pericoli. Il volto di Irizs è sempre spaventato o corrucciato, mentre gli interni, i luoghi urbani, il castello in campagna, il parco Vàros Ligeti, la tendopoli lungo il Danubio, sono tutti visti o di scorcio o leggermente fuori fuoco. La raffinatezza delle signore e l’eleganza dei vestiti e cappelli si contrappongono a fiamme, nebbia, polvere ed esplosioni che contribuiscono a rendere il film suggestivo. Si sentono fare domande cui, quasi mai, viene data risposta, brandelli di frasi interrotte bruscamente perché l’azione irrompe con una forza impetuosa e a tratti violenta, come il tentativo di stupro o la battaglia tra vetturini e cappellai.
Certo dopo un capolavoro come il suo primo lungometraggio, sarebbe stato difficile uscire con un altro film allo stesso livello, forse “Sunset” – che dura, peraltro, ben 142 minuti – è un po’ troppo denso e con una sceneggiatura eccessivamente labirintica. László Nemes, ex allievo di Bèla Tarr, è un giovane regista ungherese, quarantenne, figlio d’arte – anche suo padre è regista – ha studiato cinema sia a Parigi sia a New York ed è al suo secondo lungometraggio. Con “Sunset” si affaccia per la prima volta alla Mostra del Cinema di Venezia, dove ha il Premio FIPRESCI, dopo che si era aggiudicato con il già citato “Il figlio di Saul”, suo debutto alla regia nel 2015, importantissimi riconoscimenti – Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes, il David di Donatello, il Golden Globe e il Premio Oscar 2016 per il miglior film straniero. Anche se questo secondo film non è stato accolto dalla critica in modo del tutto favorevole, Nemes conferma il suo talento e con il suo stile formale e con la sua personalità autoriale, sembrerebbe di ritornare agli anni d’oro dei registi appartenenti al “Nuovo cinema ungherese” come ad esempio Miklós Jancsó negli anni Sessanta.