In questo clima dove tutto avviene tra squilli di tromba mediatici, non meraviglia che la scelta del linguaggio, delle metafore, dei termini sia dettata dalla continua propaganda. Lo dimostra sapientemente (altri si erano già sperimentati nello spettacolo prima di lui) il Ministro degli Interni quando ha promesso (alla conferenza stampa con il vicepresidente del Consiglio presidenziale della Libia, Ahmed Maitig) “di rendere quanto più gradevole possibile la permanenza (di chi viene rimpatriato dall’Italia) nei loro centri di protezione”. Cioè nei campi libici dove, notoriamente, la vita è già una cuccagna.
Matteo Salvini non ha usato il termine “pacchia” che pure gli è caro e che indica una esistenza piacevole, facile, spensierata con buoni cibi, materassi morbidi, gradevoli bevande.
Questo – cioè “la pacchia” – sicuramente si verifica nei nostri Centri di primo soccorso e accoglienza, nei Centri di accoglienza e per richiedenti asilo, nei Centri di permanenza per i rimpatri (CPSA, CDA, CARA).
Il problema è se la scelta di un simile linguaggio sia utile, chiara, corrispondente alla realtà o se invece non voglia conformarsi a ciò che si immagina la gente voglia ascoltare e cioè semplificazioni, falsificazioni, risposte a senso unico.
L’altro giorno Charles Opoku Kwasi, trentenne nato nel Ghana, senza fissa dimora, senza permesso di soggiorno, pluriarrestato – l’ultima volta rimesso in libertà dopo aver sfasciato un bar per non pagare una birra – trovato sulla Domiziana a danneggiare auto in sosta, infilato nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Sessa Aurunca, ha ucciso un altro ricoverato, Luca Toscano, di settantasette anni, ex infermiere. L’ha colpito con una scarica di pugni. Spinto dalla furia.
Il ghanese è uno dei tanti senza documenti, senza lavoro, fuori di testa. Certo immigrato, certo senza permesso di soggiorno, matto, violento, smanioso, minaccioso. Un malato mentale. Aveva trovato “casa” (parola pomposa per un letto abusivo affittato a ottanta euro) nel quartiere Destra Volturno là dove dovevano sorgere e mai sorgeranno resort, villaggi turistici, mentre adesso si susseguono villette sventrate, mura scalcinate che si offrono come location della bruttezza ai nostri migliori registi.
A Castelvolturno la comunità dei ghanesi non possiede nulla; paria tra paria, senza possibilità di relazioni (a differenza di quanto avviene per i nigeriani), sono una comunità chiusa di quattromila anime invisibili. Charles Opoku Kwasi era un’anima invisibile da almeno quattro e forse da undici anni. Non è una giustificazione ma qui pare che la malattia mentale ghermisca più facilmente. Comunque, l’omicida dell’ex infermiere poteva essere italiano. Lo sanno bene tante famiglie cosa accade tra le mura domestiche quando si convive con chi è fuori di testa.
Ma il pensiero del ministro deve seguire il filo della sua narrazione; girare intorno al colore della pelle del ghanese: ”L’immigrazione positiva, pulita, che porta idee, energie e rispetto è la benvenuta. Il mio problema sono i delinquenti, come quello che ha ammazzato un italiano di 77 anni a Sessa Aurunca, preso a pugni da una di queste “risorse” che ci dovrebbero pagare le pensioni”.
Ovvio che per quanti aprono crepe terribili nella società non c’è cura, ma punizione. Dopo quarant’anni dalla riforma Basaglia, nessuno vuole perdere tempo a rivedere la legge 180, a modificare la sua applicazione così a macchia di leopardo.
Siamo persone civili? Mica versiamo l’olio bollente sulle carni, mica squartiamo i corpi o bruciamo la pelle. Lo stigma, la paura, il rifiuto delle minoranze, sono legate da una sola idea: mettere dietro le sbarre.
Quella è la punizione; quella è la cura, quella è la medicina.