Mi è capitato in questo spazio, a proposito del “mondo nuovo” annunciato da Grillo e dal “Governo del cambiamento”, di affermare l’esigenza di una battaglia linguistica senza quartiere. Il linguaggio che si adopera è già un “fare” politica gravido di conseguenze: tutta la migliore filosofia contemporanea indica il potere performativo delle parole e la loro capacità di interagire con la nostra psicologia e i suoi fondamenti inconsci (Lacan non diceva che l’inconscio “è strutturato come un linguaggio”?).
Sulla Repubblica di ieri Marco Belpoliti scrive in termini molto preoccupati della “neolingua” di Salvini: gli slittamenti semantici (i migranti “in crociera” nel Mediterraneo, per i quali “è finita la pacchia”, e altre amenità terribili pronunciate – ormai canonicamente – “da ministro e da papà”) sono operati ogni giorno “attraverso il continuo riferimento allo scontro. Di più: Salvini ha bisogno di individuare un capro espiatorio per l’insoddisfazione, il malcontento e il risentimento che covano nel paese”. E ancora: “Produrre il nemico è il solo modo che Salvini ha per esistere politicamente. Non ha idee, non ha visione per il futuro, non ha progetti, se non quello di aumentare il proprio potere”. Un fenomeno di opportunismo politico che insiste sulle parole, le strumentalizza “come fa con le persone. Irresponsabile e falsario, è un pericolo per tutti”.
Per Letizia Paolozzi (I Rom, Salvini e le Eumenidi, su Alfabeta2) il ministro potrebbe anche essere personalmente “un pezzo di pane, ma i problemi invece di risolverli, li aizza, li infiamma. Ci soffia sopra. E se i bubboni (per Salvini la lista comprende oltre ai Rom, Sinti, gli immigrati, la massaggiatrici orientali sulle spiagge, i venditori di pareo fino al “fritto misto” delle coppie gay) si sono ingranditi, non ha intenzione di curarli”. Il risultato è una continua riproduzione di rabbia, e la rabbia “sorta di danza narcisistica – scrive ancora Paolozzi – espressione e paradigma adatto alla mascolinità, non si scioglie miracolosamente”.
Si fa crescere irrazionalmente la rabbia “del popolo” contro il capro espiatorio di turno, anziché, razionalmente, contro le vere cause del malessere sociale e un sistema economico che produce ingiustizie e disuguaglianze, guerre e migrazioni di massa. E cresce pericolosamente anche la nostra rabbia (la mia per esempio) contro lo stesso Salvini. E’ proprio “il lato oscuro della forza” che viene evocato.
E’ poi leggermente inquietante che si tratti di una fenomenologia con l’aspetto di un movimento internazionale, probabilmente sostenuto da “poteri forti”. Dopo le visite italiane dell’ideologo del trumpismo Steve Bannon, è stata la volta del russo Alexander Dugin, dipinto dai media quale “Rasputin” di Putin. In due interviste all’ Huffington Post e alla Repubblica questo singolare filosofo e ideologo (seguace di Heidegger e di Julius Evola, fondatore con Limonov, da cui poi si è separato, di un partito “nazionalbolscevico”) tesse l’elogio del governo giallo-verde italiano quale “primo passo storico verso l’affermazione irreversibile del populismo. Una nuova identità che guarda con fiducia alla Russia”. Dugin rifiuta le etichette di “fascismo” e respinge l’accusa di farsi portatore di una ideologia “rosso-bruna”: la giustizia sociale va coniugata alla tradizione e alle identità popolari, contro le “élite” liberali. Ma quando lo fa evocando la tradizione imperiale russa e la metafisica heideggeriana del “Dasein” (l’esser-ci), non si sa bene se sorridere o ripensare a quel pittore fallito un po’ ridicolo che arringava il “popolo” nelle birrerie di Monaco degli anni ’30.