Pubblichiamo l’intervento di Stefano Ciccone all’incontro “Sulla violenza.Ancora”, rivisto dall’autore.
Il tema della violenza maschile contro le donne è stato per lungo tempo un tema comprensibilmente guardato con sospetto da una parte del femminismo e, mi pare, anche da molte che hanno promosso questo incontro. La violenza, infatti, sembra portarci indietro, farci tornare a discutere della violenza subita dalle donne e non dell’autonomia e della libertà femminile. Appare, insomma, un tema che punta l’attenzione sulla soggezione e non sulla soggettività femminile. Ma come diceva Lia Cigarini, dobbiamo continuare a parlare di violenza proprio mettendo al centro la soggettività femminile e il suo riconoscimento e come questo valga nella vita e nell’esperienza degli uomini.
E non a caso come maschile plurale, insieme alle tante associazioni impegnate su questi temi, lavoriamo a criticare campagne istituzionali, media, (ma spesso anche campagne promosse da associazioni di donne) che ripropongono le donne come vittime, come soggetti bisognosi di una tutela. Questa rappresentazione non solo nega le donne come persone capaci di autonomia, ma alimenta e giustifica uno dei meccanismi che generano la violenza maschile: l’appello a un ruolo di tutela, guida, protezione e dunque controllo. Lo stesso appello che giustificava fino al 1975 l’uso del diritto di correzione del marito sulla moglie e lo stesso appello che, con altre forme , alimenta le politiche xenofobe di “difesa delle nostre donne” e che Traini ha tradotto in pratica a Macerata. È dunque da trattare con attenzione la denuncia della violenza e la “domanda di giustizia” delle donne per evitare che si traduca in delega a tribunali, vendicatori, difensori e tutori. Una tentazione molto presente tra gli uomini è di sostituire la riflessione su di sé con la postura del difensore o con la competizione a chi sia il maschio più “femminista”: quello che meglio aderisce alla richiesta femminile di condanna della violenza maschile. Che certo va condannata, ma non ci basta.
Il tema del riconoscimento della soggettività femminile in relazione a dinamiche di potere e oppressione è oggi un terreno più complessivamente oggetto di conflitto tra i femminismi e tra le tante prospettive politiche di critica del patriarcato, ad esempio nelle diverse articolazioni del movimento lgbt: quasi che riconoscere l’una neghi l’altra realtà. E, soprattutto, come se non fosse possibile costruire una lettura e una pratica in grado di tenere la complessità. Comunque la si pensi, sulla GPA, sulla prostituzione, oggi ci troviamo in uno scenario in cui la radicalizzazione di posizioni non permette, paradossalmente, di agire un conflitto, di produrre una lettura critica articolata e condivisa. La necessità di schierarsi sulla alternativa tra sex workers autodeterminate o schiave, o di pronunciarsi sulla prospettiva di riconoscimento della GPA come reato internazionale, toglie spazio a una riflessione che invece tenti di mettere in discussione l’immaginario e le rappresentazioni della sessualità maschile che sono dietro “lo scambio sesso denaro potere” o di interrogare il desiderio di genitorialità che vive come ingombro la presenza ineludibile di una donna che generi chi nasce e dunque, ad esempio l’esigenza di separare donatrice di ovulo e gestante. E’ invece necessario fare i conti con i propri limiti, con la propria non autosufficienza. La stessa polemica sulle molestie e i ricatti sessuali rischia di incentrarsi sulle responsabilità o complicità femminili, sui distinguo tra scelta coraggiosa e opportunismo, anziché focalizzare lo svelamento di una sessualità maschile che ricorre al ricatto e che si risolve nel potere.
Anche sul tema della violenza è necessario stare sul terreno della complessità, senza cedere alla tentazione di confondere la semplificazione, il tagliare con l’accetta dell’intransigenza, con la radicalità. Alcune compagne femministe ci hanno in passato rimproverato: mettere l’accento sulla complessità finisce col paralizzare. Io credo, al contrario, che l’unico modo sia proprio interpretare la radicalità come “andare alla radice” e scoprire sotterranee complicità e permanenze che si mescolano ambiguamente alle novità. È questo l’unico modo per affrontare la violenza senza ridurre le donne a vittime e gli autori a devianti, estranei. Riconoscere che la violenza ha radici profonde nelle nostre rappresentazioni condivise di amore, relazione, sessualità, nelle nostre rappresentazioni di attitudini e ruoli maschili e femminili non è un modo per ridurre la radicalità alla nostra critica o per attenuare le differenze di responsabilità tra chi agisce la violenza e chi la subisce ma, al contrario, l’unica strada per produrre una critica che esca dall’ordine sessuato patriarcale. Che non si limiti a denunciare la violenza ma produca una critica delle nostre rappresentazioni di amore, desiderio, relazione…
Dunque non schiacciare le donne nel ruolo di vittime non vuol dire insinuare una loro “complicità” ma tenere insieme due elementi: riconoscimento della soggettività femminile e radice della violenza in un sistema che ordina le vite di donne e uomini.
Al tempo stesso, ma sarebbe un altro tema che porterebbe lontano, l’alternativa alla soggezione femminile, alla rappresentazione dell’oblatività, all’obbligo della modestia e dell’autocensura, rischia ciclicamente di condurre a rappresentazioni che rivelano tutta la loro contiguità a un immaginario fallico di potenza rischiando una mossa di sfida simmetrica alla matrice fallica della violenza. Come si è detto in altre occasioni, discutendo di forme del conflitto, “Rabbia, conflitto, radicalità e violenza non sono sinonimi.” Prima ancora delle sue conseguenze distruttive il problema è la subalternità di queste tentazioni a un simbolico fallico: non si tratta , dunque, di cercare un “dosaggio”, ma di mantenere aperta una critica radicale delle forme in cui il conflitto si esprime e di contrastare la forza seduttiva del richiamo del simbolico patriarcale che lo imprigiona.
La critica a una continuità lineare tra rabbia, conflitto e violenza non porta all’abdicazione ad agire, se necessario, con tutta la forza necessaria, ma ci chiede di riconoscere quanto la violenza non sia uno strumento a nostra disposizione ma, piuttosto il contrario: ci agisce.
Ma oggi, speculare alla vittimizzazione delle donne, c’è il vittimismo maschile. La rappresentazione dello smarrimento degli uomini di fronte al cambiamento e alla rottura di ruoli e destini fissi. La rappresentazione dominante nei media, nel senso comune, ma anche nelle letture prodotte dai “saperi esperti”, è di un cambiamento che produrrebbe uomini devirilizzati, depressi, intimoriti, minacciati nella propria identità, incalzati da donne aggressive e intraprendenti.
Qui, anche, credo sia necessario chiarire tra noi come leggiamo il nesso tra violenza e crisi del patriarcato. Non basta, a mio parere, fermarsi a dire che la violenza maschile di oggi è figlia di una crisi del patriarcato già consumata. E non solo perché non vede la “resilienza” (si direbbe oggi) del sistema patriarcale o la persistenza e il ritorno di invarianze mescolate con rotture e innovazioni, ma perché se ci fermiamo a vedere la rottura delle relazioni di potere tra i sessi e la nuova libertà delle donne rischiamo, come è avvenuto in questi anni, di confondere la nostra lettura con altre che conducono invece alla nostalgia di quel mondo perduto, di quel principio ordinatore: la “legge del padre” capace di regolare i comportamenti maschili, di governare le pulsioni e fondare un’etica delle relazioni.
Il nodo da evidenziare, invece, per me, è non solo la fine di quel sistema di potere che oggi sento non essere più in grado di rispondere alla mia domanda di senso e che dunque non rimpiango, ma l’assenza di riferimenti simbolici, di parole, di categorie a disposizione degli uomini per riconoscere in questo cambiamento non una minaccia ma un’opportunità, per non inseguire il mito dell’autosufficienza, della potenza fallica, del dominio sull’altra e su noi stessi, della prestazione, che hanno prodotto potere e miseria nella vita degli uomini.
Come uomini dobbiamo dunque riflettere meglio sul potere maschile (a cosa risponda ma anche cosa produca in termini di alienazione nella nostra sessualità, nelle nostre relazioni e nella nostra esperienza del corpo) per non limitarsi all’assunzione di colpa o alla rinuncia volontaristica.
Qui la crisi del simbolico patriarcale acquista allora un senso diverso perché mostra come per gli uomini rappresenti ormai un vicolo cieco, incapace di fornire riferimenti per vivere il cambiamento oltre la frustrazione, il rancore vittimistico e la ricerca di rivalsa. Da qui è possibile, ed è quello che proviamo a fare come maschile plurale, costruire un coinvolgimento degli uomini non solo nel contrasto alla violenza e non solo in un impegno volontaristico basato sul “politicamente corretto”, ma in un conflitto contro un sistema di relazioni e di rappresentazione della realtà trovando in questo conflitto la molla del desiderio di una propria libertà e qualità della propria vita e delle proprie relazioni.
L’inadeguatezza dell’appello al “politicamente corretto”, alla “buona educazione”, mi pare mostri in questa fase la sua valenza più generale, ben oltre il contrasto alla violenza maschile. Quando vado nelle scuole sento l’insofferenza dei ragazzi e delle ragazze per la “predica” e percepisco l’insopportabile retorica istituzionale sul “rispetto”. Non c’è rispetto senza riconoscimento, e il riconoscimento della soggettività femminile può parlare di più della tutela della fragilità femminile o l’appello all’autodisciplinamento maschile.