UN SOGNO CHIAMATO FLORIDA – Film di Sean Baker. Con Willem Dafoe, Bria Vinaite, Brooklynn Kimberly Prince, Valeria Cotto, Christopher Rivera, USA 2017 –
Il film rappresenta uno squarcio di mondo attuale visto attraverso gli occhi dei bambini. Questa operazione ricorda gli esordi del cinema, quando i registi pionieri guardavano ai grandi scrittori Ottocenteschi: ad esempio D.W. Griffith quando girava in esterno portava sempre con sé una copia di “David Copperfield” di Charles Dickens, che è uno stimabile esempio di mondo visto con gli occhi di bambino. Ricorda anche il mondo dei “Peanuts” di Charles M. Schulz, con la differenza che solo lì erano i bambini della middle-class negli anni del boom economico, ognuno con le sue nevrosi (c’era l’esplosione della psicoanalisi nel mondo occidentale). Anche lì l’habitat suburbano era tutto sintetizzato da pochi elementi: il dosso del baseball, la cuccia di Snoopy, il banchetto da psicoanalista di Lucy, il pianoforte di Shröder e così via. Il punto di vista era sempre ad altezza di bambino.
Qui, in The Florid Project – titolo originale – i bambini sono figli di under lumpen, di misfits, di drop-out, di sfigati che si arrabattano, in una realtà degradata, per mettere insieme quattro soldi. Donne tatuate, piercing ovunque, canne a gogo, o fanno le cameriere o rubacchiano oppure si prostituiscono saltuariamente per riuscire a pagare l’affitto nella casa-albergo color lilla, il Magic-Castle, Inn & Suites. Siamo in Florida vicino ai parchi tematici di Disneyword Orlando, il cui primo insediamento è del 1971, secondo solo a Disneyland Los Angeles che è del 1955. Siamo in estate e Moonee (la bravissima Brooklynn Kimberly Prince) è una ragazzina pestifera di sei anni figlia di Halley (Bria Vinaite), una giovane sbandata e maleducata, già uscita di galera e che pratica l’arte di “arrangiarsi”. La bambina trascina i suoi amichetti Scooty, Dicky e Jancey, in una serie di bravate combinando un disastro dopo l’altro: una serie di piccole canaglie contemporanee. Il manager ma anche l’handy-man dell’Hotel, è Bobby, interpretato magistralmente da Willem Dafoe, che mediando tra il rigore del suo ruolo e la sua natura permissiva, cerca di aiutare, per quanto gli è possibile, questa poco fortunata umanità. Sul finale il film mostra un lato di tenerezza che sembrerebbe affermare che perfino una madre sciagurata è sempre una madre, ed ha con la figlia un bel rapporto di fisicità e di gioco anche a discapito di qualsiasi disciplina.
Tipico del mondo del regista Sean Baker è mettere in scena la marginalità, così come ha fatto nei film precedenti, Tangerine del 2015 e Starlet del 2012. In Un sogno chiamato Florida, sono rappresentate o madri single, o nonne che tengono i nipotini, o padri single: sembra che la coppia sia un istituzione desueta. L’uso di persone prese dalla strada (o da Istagram) integra quello degli attori professionisti e alcuni critici lo hanno, pertanto, associato al neo-realismo. Ma a mio avviso lo stile del film è più identificabile con la corrente iperrealista, nello straniamento delle inquadrature, nel colore delle casette abbandonate che ricordano la città di Edward Mani di Forbice di Tim Burton, nell’indugiare sullo squallore dell’area con i suoi chioschi e di alcune immagini surreali, nell’assurdità degli elicotteri che sorvolano continuamente il prato incolto, nelle improvvise piogge tropicali e nei soggetti anche banali di vita quotidiana. L’iperrealismo si era manifestato come corrente artistica negli Stati Uniti, alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso. Nell’universo iperrealista convergono figure oggettuali, mezzi di comunicazione e paesaggi urbani in cui la macchina da presa si muove tra scene di vita o situazioni metropolitane senza dare giudizi, semplicemente registrando ed indugiando in lunghe carrellate su oggetti, insegne e situazioni urbane degradate con uno stile supervisivo e anaffettivo. Elementi essenziali del linguaggio figurativo, sia in pittura sia in cinematografia, sono un’osservazione fotografica dell’oggetto, uno stile freddo e il più possibile oggettivo, una grande attenzione ai dettagli, un assoluto distacco psicologico dall’oggetto con la conseguente eliminazione delle scelte personali e soggettive, un’impressione complessiva di una specie di “presenza dell’assenza”.
Un sogno chiamato Florida è stato presentato alla Quinzaine di Cannes del 2017 e all’ultimo Torino Film Festival. Candidato a numerosi premi – tra cui Oscar e Golden Globe a Willem Dafoe, premio Goya alla rivelazione Brooklynn Kimberly Prince – non ha ottenuto il giusto riconoscimento.