In vacanza si legge di più, anche più disordinatamente e forse velleitariamente. Così ripassando un po’ Kant grazie a una piccola antologia (a cura di Tommaso Tuppini) ritrovo il mistero dell’Io penso, altrimenti detto appercezione. Qualcosa di fondamentale per conoscere il mondo, costitutivo dell’autocoscienza, ma oscuro a noi stessi. Mi imbatto poi in un libricino, Il cervello tra cellule e emozioni (Castelvecchi, 2017) scritto dal neuroscienziato Gianvito Martino. Si potranno trovare corrispondenze tra le idee del filosofo e le più recenti acquisizioni scientifiche sul funzionamento della mente umana?
Ma la prima cosa che mi colpisce è l’affermazione con cui si apre i libro (tratto da una conferenza di qualche anno fa). Noi umani siamo una specie di Chimera, l’animale mitologico fatto dall’unione di animali diversi. Infatti viviamo solo grazie alle interazioni con alcuni bilioni di batteri, virus e funghi che ci abitano, in combutta, per così dire, con tutte le cellule del nostro corpo. E la legge generale che informa le azioni di tutti questi microrganismi è quella della difesa dalle minacce esterne, da ciò che potrebbe attentare alla sopravvivenza di quell’”ecosistema di cellule umane e batteri in continua interazione” che siamo noi.
A quanto pare non fanno eccezione i comportamenti delle cellule e delle sinapsi che agiscono nel luogo più importante: il cervello. In una parte più antica e remota nascono le reazioni inconsapevoli a ciò che ci aggredisce, anche sotto forma di emozioni che attraverso il “sistema limbico” – uno strato intermedio tra il nucleo più antico e profondo e la corteccia – raggiungono la parte più esterna e nuova, che sarebbe la sede delle scelte razionali.
La conclusione a cui giunge l’autore non è consolante. “Il nostro cervello non è razionale”, afferma. Il primato dell’autodifesa e gli automatismi emozionali e comportamentali che suscita senza la mediazione del “ragionamento” indebolisce la razionalità che può essere prodotta dal tutto. Né, per quanti progressi le neuroscienze abbiano fatto negli ultimi tempi, sono alle viste rimedi facilmente individuabili. Nei prossimi 15 anni, con investimenti pari a circa 200 miliardi di dollari, “se ci andrà bene – dice il prof. Martino – riusciremo giusto a capire come funziona il cervello di un piccolo topo”.
Ma non bisogna demoralizzarsi troppo. Magari proprio studiando meglio i bruti meccanismi irrazionali, si potrebbe fare qualche progresso pratico. Un’idea – la mia fonte è sempre il medesimo libricino – venne al premier inglese Cameron, il cui governo avviò un team di esperti denominato “Behavioural Insight Team” con lo scopo di aiutare la gente a “fare scelte migliori per se stesse”. Da una piccola ricerca in rete mi è venuto il sospetto che, in realtà, questo organismo abbia cercato – pare con qualche piccolo successo – di indurre “gentilmente” la gente a fare scelte che erano migliori anche, e forse soprattutto, per la politica del governo conservatore, per esempio per il taglio della spesa pubblica.
Inoltre c’è da chiedersi perché mai Cameron non abbia consultato questo illuminato organismo prima di decidere di indire il referendum sulla Brexit. Scelta che certamente non è stata per lui la migliore (e nemmeno per gli inglesi).
Conclusione provvisoria: resta una chimera – nel senso metaforico di cosa (per ora?) irrealizzabile – una completa conoscenza del nostro cervello. Il vecchio Kant non aveva tutti i torti a supporre un Io penso alquanto oscuro. Tanto più apprezzabile il tentativo di ricavarne criticamente una “ragione pura”.