di Monica Luongo
E’ l’amore 3.0, che non riguarda né Internet, i social network e i siti di incontri tra sconosciuti. E’ quello che sta nelle possibilità di chi è ormai più che adulto, ha una vita con un lungo cammino alle spalle e ne sente la fatica: un lavoro, una madre a cui badare, una giornata scandita da ritmi imposti dalla città e dalle scelte fatte negli anni addietro.
Eppure. E’ quello di una donna come tante, che in mezzo a tanto “fare” si accorge che il desiderio, l’amore stavano solo dormendo e non si erano accorti del semplice e così apparentemente distante cameriere che da anni serve la donna e sua madre nella pizzeria sotto casa.
Lo racconta Valeria Parrella ne “Il giorno dopo la festa”, che apre la raccolta di racconti Troppa importanza all’amore (Einaudi, 2015). Stile asciutto e fulminante – semplicità sintattica e dardi allo spirito – la scrittrice napoletana scava sempre nei sentimenti, quando pescati dalla vita quotidiana, dai risvegli mattutini, da quei “feelings” che ancora le donne e gli uomini colgono ma ai quali non vogliono prestare ascolto. Così Giulia decide che sì, una notte si può spendere con quell’uomo che per anni ti ha osservata senza mai essere pressante ma che ora lei desidera.
Già ma dopo? Dopo una sola notte di sesso lui le dice che l’ama. “Me l’aveva proprio detto, a ritmo di spinte pelviche, ecco. Davanti allo specchio, mi toglievo le linee di mascara colato con la crema antirughe (colato per il sudore, mica per le lacrime) e decisi ciò che andava fatto: non passare mai più in pizzeria. Eppure, ancora, mentre mi accompagnava da mamma con la vespa, dietro di lui e senza casco, mi sentivo proprio al posto giusto”. La crema antirughe di chi ha cinquant’anni e si sente sicura e felice nel proprio corpo ma ancora tentenna negli stati d’animo. Parrella aiuta a capire che con gli anni smetti di pensare che cambierai te stessa e il mondo e soprattutto che inizi a prendere ciò di cui hai bisogno (amore, affetto, relazioni allargate, sesso, famiglia/e) non più dalla stessa persona: piuttosto componi un puzzle di desideri e bisogni e piccole e grandi felicità che non ti lasciano più a terra in caso di default proprio perché le risorse che hai costruito intorno a te sono infinite.
Ne capisce meno, invece, e ne soffre a volte inspiegabilmente, l’abaco di uomini che Murakami Haruki crea per Uomini senza donne (Einaudi, 2014), sette storie di smarrimento e fantasie che fanno passare il sonno. Lieve come una libellula, essenziale come un haiku (anche in romanzi come 1Q84), lo scrittore giapponese è fedele alla filosofia del paese in cui è nato: descrivere lasciando immaginare chi legge, lavorando sui sentimenti come si stira una camicia, in cui si pensa ad altro mentre si agisce ma poi si rimira il lavoro ben fatto.
C’è un uomo d’affari che decide di assumere una donna più giovane come autista e pian piano riesce a farsi raccontare e a sua volta dire dei propri amori. C’è un altro professionista maturo che un giorno viene invitato a pranzo da un uomo che lo informa di essere diventato il vedovo di quella che era stata una sua amante e vuole diventargli amico. E c’è Gregor Samsa, che questa volta – nato scarafaggio – si risveglia uomo e non sa proprio che pesci pigliare con la donna che l’ama. Più che uomini senza donne, sembrano a me uomini che le hanno hanno intorno o le hanno smarrite senza accorgersene, e che pur sempre cercano nuovi lemmi nel loro personale dizionario delle relazioni con l’altro sesso.
E’ l’amore 3.0. Quello dell’oggi stanco, del domani che potrebbe anche non arrivare, dell’ieri di cui a volte non ti sei accorto per tempo.
L’articolo è apparso anche sul blog www.olimpiabineschi.it