RITORNO ALLA VITA – Film di Wim Wenders. Con James Franco, Rachel Mc Adams, Charlotte Gainsbourg, Marie-Josée Croze, Robert Naylor, Julia Sarah Stone, Patrick Bachau.Sceneggiatura di Bjørn Olaf Johannessen. Musiche di Alexandre Desplat.
Ho sempre sostenuto che Wim Wenders fosse un narratore di luoghi, o meglio dei non-luoghi, infatti, il cinema può essere considerato un mezzo di rappresentazione di luoghi reali o luoghi virtuali, spazi d’invenzioni o spazi esistenti reinterpretati. Wenders sembra usare la ripresa cinematografica come veicolo di rappresentazione del territorio. Particolarmente sensibile all’architettura il regista possiede un back-ground artistico avendo studiato pittura a Parigi e lavorato come incisore in un atelier di Montmartre. In alcuni film i suoi riferimenti pittorici sono espliciti, in altri – specialmente quelli girati negli Stati Uniti – gli iperrealisti gli suggeriscono sia il taglio delle inquadrature sia il soggetto stesso.
Anche in Ritorno alla vita c’è un’immagine omaggio a Edward Hopper e al suo celebre quadro Nighthawks (nel primo incontro al bar tra Tomas e Cristopher sedicenne).
Wenders, oltre ad essere un regista particolarmente sensibile e attratto dalle realtà urbane, è anche un fotografo di luoghi. Ogni luogo per lui racchiude una storia che una volta è accaduta o che accadrà e che attende solo di essere narrata. I luoghi osservati da Wenders sono spesso reliquie del presente o rovine del nostro tempo come i drive-in abbandonati che non custodiscono memoria né portano tradizione, talvolta non hanno ancora accumulato tempo, o sono rovine fin dalla nascita, come gli squallidi interni vicini alle highways. Non sempre i luoghi da lui rappresentati sono riconoscibili. Infatti, il suo gusto per le zone abbandonate, per le periferie, per la città “altra”, per lo squallore del middle of nowhere e per ciò che è chiamato il non-luogo, rende spesso non individuabili i posti in cui i suoi film vengono girati.
Qui protagonista è la natura avversa: – oltre al destino – il rigido clima nordico che si manifesta in tempeste di neve ma anche in piatti orizzonti bianchi sconfinati.
La città canadese che fa da sfondo è più allusa che rappresentata. Non si differenza sostanzialmente da una città statunitense: la suburbia è il luogo deputato per l’abitazione e il downtown prevalentemente funzionale come il CBD (Central Business District), accosta vecchie guglie a grattacieli per uffici.
Negli ultimi anni Wenders si era avventurato in generi diversi (Pina Bauch in 3D del 2011 e Il sale della terra del 2014) quasi più documentari, ma in questo film sembrerebbe aver optato per una storia non-storia, scritta dal norvegese Bjørn Olaf Johannessen che abbraccia dodici anni di vita dello scrittore Tomas Eldan (James Franco), del suo successo letterario ma anche delle sue difficili relazioni umane.
Nel film sono rappresentate varie donne con figli del cui padre non si sa nulla, non si sa se le madri siano divorziate o vedove né se i padri siano consapevoli di avere dei figli… e nessuno se lo chiede.
Tomas ha un rapporto di convivenza prima con Sara (Rachel Mc Adams), che avrebbe voluto da lui dei figli, poi con Ann (Marie-Josée Croze) già madre di una bimba, che lo accusa di scarsa emotività. Tomas ha un carattere chiuso enigmatico, si vede anche nella relazione con il padre che ogni tanto va a trovare più per senso di dovere che per vero affetto. Ma il bisogno di paternità è comunque molto presente sia nello scrittore, il quale sembrerebbe voler dedicare la vita solo alla scrittura e si inventa che non può avere figli a qualcuna che glielo chiede, sia nei bambini poi giovani adolescenti che chiedono a lui di svolgere un ruolo di padre.
Le partiture minimaliste del musicista Alexandre Desplat – autore tra l’altro delle musiche di The Grand Budapest Hotel con cui ha vinto l’Oscar nel 2014 – ci accompagnano in questa avventura emotiva che è la visione di Ritorno alla vita.
La storia ha inizio con Tomas in una fase di crisi di scrittura che cerca di superare isolandosi in una cabin immersa nelle sterminate nevi dell’Ontario canadese alla ricerca di un maggiore contatto con la natura. La crisi creativa sarà superata solo dopo un forte impatto emotivo: in un incidente d’auto Tomas uccide involontariamente uno dei due fratellini in slitta. Seguiranno mesi autodistruttivi pieni di sensi di colpa da cui però, dopo un tentato suicidio, uscirà ritemprato e, avendo provato così forti emozioni, riuscirà a scrivere mescolando realtà, fantasia e memorie – come spiega lui stesso a Cristopher sedicenne. Il rapporto dello scrittore con la madre dei bambini Kate – un’intensa Gainsborogh che interpreta un’illustratrice che vive isolata sul lago di Ontario – ha quasi un sapore mistico. Dopo due anni dalla disgrazia, la donna sembra essere riuscita a superare la perdita del figlio grazie alla religione che cerca di trasmettere a Tomas il quale, all’epoca, non si dava ancora pace. Insieme bruciano un libro di Falkner colpevole di aver distratto con i suoi romanzi Kate dai suoi doveri materni.
Il finale della storia mi ha ricordato – in una scala completamente diversa – l’obiettivo che da vari anni si prefigge l’Associazione One by One per superare gli orrori dei campi di concentramento nazisti: fa incontrare la vittima, o il suo discendente, con il carnefice o il suo discendente. La condivisione tra i rancori e i sensi di colpa spesso ha un effetto catartico.
Pur non avendo visto il film in 3D la sensazione di essere totalmente immersi nella natura è molto forte, e la splendida fotografia ci trasmette la bellezza ma anche l’angoscia dell’abitare in un così vasto territorio naturale.
Trovo interessante la notazione di Per Luigi Locatelli, giornalista appassionato di cinema, per il quale il film è il più bergmaniano di Wenders dove sono rappresentate anime inquiete devastate dalla colpa e incapaci di non farsi del male in un paesaggio da grande nord sommerso dalla neve. Lo stesso regista racconta in un’intervista che: «Se parliamo in termini di angolature e inquadrature Ritorno alla vita è un film molto classico, ma dentro quell’involucro classico c’è un film che ti porta in profondità, più vicino ai personaggi di qualsiasi altro film drammatico abbia fatto in precedenza». E così scrive Alessandra Levantesi Kesich: «Wenders usa il 3D non tanto per enfatizzare l’azione, ma per dare un respiro tridimensionale a un mondo interiore, che nel caso si configura come un tunnel di angoscia lungo undici anni, in attesa di un ritorno alla vita».