Pubblicato sul manifesto il 21 luglio 2015 –
Leggendo gli articoli sulla Grecia mi sono reso conto che quando si parla del periodo di tempo in cui potrà essere diluito il pagamento del debito si usa – tecnicamente? – il termine grazia.
Grazia è una parola meravigliosa, che evoca parecchie cose di significato vicino, ma molto diverse tra loro. Oltre a essere un bel nome di donna. Deriva dal latino gratus, grato, gradito, piacevole ad altrui. E dal greco chàris, che vuol dire anche dono. Da cui la carità, quando facciamo l’elemosina. Ma anche l’amore cristiano, nella sua più alta concettualizzazione. La stessa radice del termine carisma, che normalmente leghiamo ai leader politici capaci di farsi seguire dal popolo, molto più ricco e complesso nella tradizione teologica.
Ma torniamo alla grazia. Può essere la benevolenza di un dio, che ci illumina improvvisamente e misteriosamente. E ci dona la fede. Ma anche la concessione di una autorità terrena, che condona una pena. Sarebbe forse questo il significato nel caso del debito greco. I capi, e le cape, della Troika si mettono d’accordo per concedere graziosamente alla Grecia qualche decennio in più per rimborsare i creditori, magari pagando anche meno interessi.
Ma è possibile conquistarsi la grazia ricevuta?
Nel caso mi piace sostenere che l’azione di Tsipras, culminata nella vittoria del referendum e nell’accettazione di un compromesso per restare nell’euro, per quanto ingiusto e doloroso per il suo paese, ha prodotto un cambiamento radicale nel discorso pubblico – anche quello proveniente dai suoi avversari: la Bce e il Fondo monetario (forse c’entra anche Obama) hanno ammesso che il debito greco è insostenibile, va in qualche modo e in qualche misura ristrutturato. Ciò significa, almeno ai miei occhi, che è stata aperta una falla nel “pensiero unico” che finora ha dominato la costruzione europea. Una falla attraverso cui potrebbe passare – se si coalizzassero le forze politiche e culturali sufficienti – un’altra idea di Europa, capace di riconnettere l’economia alla politica, di costruire una più decente democrazia sovranazionale, di favorire gli interessi dei più deboli (e magari di inventare un modo di produrre e consumare che garantisca una buona vita senza debiti mostruosi, privati e pubblici).
Da ciò forse si capisce che non condivido due atteggiamenti speculari e assai poco graziosi nei confronti del leader di Syriza: chi dopo averlo avversato ora lo iscrive tra i “riformisti” moderati e giudiziosi (cioè rinunciatari) e chi dopo essere stato al suo fianco lo accusa di aver tradito il mandato.
Tendo invece a credere che la somma delle sue drammatiche scelte, nelle condizioni date, possa aver aperto una nuova fase per tutte le forze e le persone che desiderano una politica diversa da quella – per intenderci – indicata, con innegabile coerenza, dal ministro delle finanze tedesco. Naturalmente dipende dalla volontà e dall’intelligenza di molti altri soggetti.
Mi ha stupito leggere sul Corriere della sera un intervento di Stefano Fassina in cui si dichiara d’accordo con Schauble: per la Grecia, e non solo, sarebbe meglio uscire dall’euro. Stupito fino a un certo punto perché non è da ora che Fassina giudica ormai insostenibile l’esperimento dell’euro (come molti altri economisti, anche di sinistra). Di economia mi intendo poco, ma l’euro mi sembra ormai divenuto un simbolo, più di quanto non lo siano normalmente le monete. E sul suo significato politico e sociale è in atto una lotta simbolica molto alta. L’idea di tornare alle monete nazionali mi suona come ammettere la sconfitta prima ancora di averla combattuta.