“La testa rasata è, almeno nella nostra cultura, una vergogna da nascondere: l’industria della parrucca resiste quasi solo per le donne in chemioterapia”.
Franca Rovigatti, poeta, è una di quelle donne. Costretta a ribaltare gli esiti della malattia per non restare schiacciata dall’aggressione del tumore ma anche dalla violenza della cura.
Certo, la cura ti salva. Eppure ti lascia dei segni. Una ferita narcisistica la chiamerebbe chi frequenta “la vigna psicoanalitica” (Jacques Lacan). Non ci vuole uno slancio empatico per capire che, in una donna, in qualsiasi donna, la perdita dei capelli è un attentato alla propria immagine. Un attentato che artiglia l’identità, quello che fino a ieri eravamo e non saremo più. Tutt’altro discorso per l’uomo dal cranio liscio, senza peli. Un Lothar, un bodyguard dal successo assicurato perché – giurano – possiede addirittura un di più di virilità.
Quanto agli effetti della chemioterapia, sono tali da costringerti a prendere nuove misure nel rapporto con il mondo. Dopo che ti sei guardata con una sorta di curiosità morbosa e la paura di non sapere più chi sei.
La cura è vendicativa. Ha eliminato i lunghi, biondi capelli di Franca Rovigatti. Non soltanto una perdita. Ma la minaccia di non sentirsi “normale” perché diversa dal concetto di femminilità.
E se la femminilità si rivelasse un’invenzione?
Di qui la decisione della rasatura. Che si porta dietro la colpa e la sofferenza; il castigo e la rinuncia. Venivano rasate le streghe prima di mandarle al rogo per scoprire se portassero nascosto dai capelli “il marchio del diavolo”. Poi le collaborazioniste in piazza affinché esibissero quel sigillo infamante. Oppure la donna che, nel prendere il velo, sacrifica un elemento della seduzione e la monaca buddista che aspira alla mortificazione.
Fa da sfondo la vicenda di sempre di una sessualità femminile plasmata per assecondare canoni e precetti sociali. Rompere il gioco della donna “vera”: la sfida di Franca Rovigatti parte da qui. Su questo ha lavorato esponendo la sua testa nuda “da rosa-dolly diventata nera, a strisce, bianca, oro, terra”; trasformando il suo cranio nella tela di un quadro, nel sostegno di una rappresentazione; coltivandolo per mezzo di tinte, ceroni, plastiline; decorandolo con spille, chiodi issati sopra. E pois, smarginature, chiazze riportate sul viso. Ecco un soggetto che ha attraversato il dolore. Di questa verità si fanno garanti le foto, il video. “Io guardo lo sguardo /che mi guarda”. Aiutata dalla fotografia di Martina Cocco, dal trucco di Arianna Ambrosoli, da Michele Cinque che ha montato il video e da Luigi Cinque per la musica del video.
La mostra, intitolata A testa nuda, è stata vista per la prima volta alla galleria Romalibera. Adesso cerca ospitalità in luoghi dove il corpo femminile non sia definito (imprigionandolo) dai lunghi, biondi capelli. Dove la malattia possa aprire nuove domande di conoscenza.