Una delle cose per me più irritanti, di cui sono pieni i giornali (e altri media) è l’uso del termine “guerra civile” per descrivere le vicissitudini della politica italiana nell’ultimo ventennio. Ora che – per una specie di scherzo della storia (un contributo importante a questo esito l’ha dato anche un comico di professione) – esiste un governo cosiddetto di “larghe intese” (in realtà i partiti che lo sostengono rappresentano una minoranza dei cittadini-elettori) da più parti si invoca la “pacificazione”. L’ultimo a minacciare l’incrudimento della “guerra civile” – dopo la sentenza che ha definitivamente condannato Berlusconi – è stato il politico-poeta Bondi.
Siamo veramente al comico, al limite tra farsa e tragedia, anche se non è mai piacevole vedere un uomo condannato. Se poi il condannato è un politico, non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che sarebbe suo dovere passare la mano. Oso immaginare che, alla fine, sarà proprio quello che farà persino Berlusconi. Nonostante il fatto che il più intelligente dei suoi “intellettuali organici”, Giuliano Ferrara, si affanni a spiegarci che il suo ruolo sarebbe speciale al punto da renderne insostituibile la leadership. Questa sì sarebbe una condanna a morte per il centrodestra italiano.
Comunque, e per fortuna, non c’è stata alcuna “guerra civile” nell’Italia che ha visto la parabola di Berlusconi. Violenze e episodici drammatici sì: suicidi in carcere all’epoca di Tangentopoli, soprattutto la reazione violenta della mafia – gli omicidi di Lima, Falcone e Borsellino, e le stragi – di fronte a un cambio nel sistema di potere, dopo l’89, che ha fatto saltare molti vecchi equilibri.
Le uniche scene simili a una “guerra civile” le ho viste a Genova al G8 del 2001. I responsabili politici di allora – Fini, Scajola, lo stesso Berlusconi – non ne hanno mai risposto. Anche il “rivoluzionario” Di Pietro si è sempre opposto all’apertura di una seria inchiesta parlamentare sulle violenze delle forze dell’ordine, dei black bloc e sulla gestione dell’”ordine pubblico”. Qualcosa di simile rischia ora di profilarsi intorno al movimento No Tav in Val di Susa: il primo ministro Letta, e non solo lui, dovrebbe starci molto attento.
Per il resto abbiamo vissuto una dialettica tra i “nuovi” partiti – e i vecchi giornali, tv e gruppi editoriali – della cosiddetta Seconda Repubblica tanto urlata quanto poco concludente, e in genere dannosa per i cittadini. L’unica vera scelta importante è stata l’ingresso nell’Euro, gestito da Prodi e Ciampi. Berlusconi, prima che come evasore fiscale e frequentatore di giovani donne a pagamento, è fallito come capo dei suoi governi.
Purtroppo le “guerre civili” sono ben presenti nella realtà attuale, e anche molto vicine a noi. Basta attraversare il Mediterraneo. Lì ci sono battaglie cruente e molti morti veri, non c’è molto spazio per il comico e l’avanspettacolo. Ma di questo i politici nostrani sembrano preoccuparsi assai poco.
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Un’altra guerra che domina da tempo il discorso dei media è quella dei sessi. Il termine “femminicidio” si è imposto a identificare tutti i delitti che i maschi compiono ai danni delle loro mogli, compagne, amanti, amiche. E in genere di donne contro le quali la violenza viene esercitata come specifica reazione al fatto che i comportamenti di queste donne non rientrano nei canoni prefigurati nelle menti degli assassini, persecutori, stalker. Il premier Letta e il ministro degli Interni Alfano hanno presentato in gran pompa un decreto che aumenta le pene e i provvedimenti preventivi nei confronti degli uomini violenti, con aggravanti per la violenza esercitata in presenza dei figli o di minori, o contro una donna incinta, o la propria moglie o partner. Tra le altre norme quella che impedisce di ritirare la querela da parte della donna una volta presentata.
L’Unità ha ritenuto di aprire la sua prima pagina su questa notizia titolando “Dalla parte delle donne”: dodici articoli – scrive – “per fermare la mattanza. Il governo ha varato un decreto per difendere le donne dalla violenza”. Anche il manifesto ha dato molto rilievo alla notizia, ma sottolineando il fatto che il decreto prevede molte altre norme sulla sicurezza, a cominciare da quelle per presidiare militarmente meglio i cantieri dell’alta velocità in Val di Susa. La reazione della politica, e della politica che governa, alle molte battaglie e denunce contro la violenza maschile sulle donne, è dunque un decreto essenzialmente repressivo, in una logica emergenziale. E’ un po’ la linea esemplificata dalla campagna di una nota casa produttrice di “lingerie” per donne: “Ferma il bastardo” (e chissà se il, o la, copy-wryter si è fermato/a un attimo a riflettere sul significato della parola “bastardo”). Anche se – come scrive ancora sull’Unità la viceministra Maria Cecilia Guerra, che ha la delega delle pari opportunità dopo le dimissioni della ministra Idem – lo stesso testo prevede “l’urgente definizione di un piano di azione” di tipo culturale e formativo. Ma si tratta – se ho capito bene – di un secondo passo, tutto da definire.
Anni fa – era il 2006 – ho partecipato con altri amici di Maschileplurale alla stesura e diffusione di un testo che, credo per la prima volta in Italia, affermava da parte di uomini la responsabilità maschile nella diffusione della violenza contro le donne, e l’esigenza di combatterla a partire da un impegno in ogni contesto – familiare, politico, lavorativo ecc. – per modificare i pregiudizi e la cultura “maschilista” degli uomini che sono alla radice dei comportamenti violenti. Penso quindi che sia un fatto positivo la recente “esplosione” mediatica del problema, e anche il fatto che la politica ritenga di doversene occupare. Sulle modalità, le norme e il linguaggio con cui questo dramma ora viene prevalentemente affrontato, ho però più di un dubbio.
Dubbi vengono avanzati anche da alcune donne: Mariella Gramaglia, sulla Stampa, si chiede se siano state stanziate risorse per i centri antiviolenza, gli unici che operano efficacemente a sostegno delle donne, perché si sia deciso di intervenire per decreto, e se si opererà anche per rendere veloce e affidabile l’azione della magistratura. Chiara Saraceno, sul manifesto, afferma che la non revocabilità della querela “rischia di essere un boomerang” : potrebbe infatti spingere le donne a non presentarla affatto. Anche Concita De Gregorio, sulla Repubblica, avanza più di una riserva sulla logica quasi esclusivamente repressiva delle norme adottate, e si chiede se non si stabilisca una discriminazione verso le donne che non hanno figli o legami con un uomo. Chi picchia loro non merita una uguale pena?
A me non piace soprattutto una cosa: il linguaggio prevalente con cui il “mainstream” della politica e dell’informazione affronta il “femminicidio” mi pare possa produrre – se non si agirà per una inversione di tendenza – due esiti negativi. Una ulteriore vittimizzazione delle donne, una nuova rimozione del fatto che anche molti episodi di violenza maschile reagiscono in realtà a una nuova forza, indipendenza, autonomia, libertà delle donne. E poi una facile scappatoia per molti uomini, comunque responsabili di condividere il generale clima culturale (patriarcale o post-patriarcale) che alimenta nel profondo la violenza maschile. Basta dire: io no, io sono contro la violenza (e ci mancherebbe altro), io non c’entro. Anzi sono per mettere in galera tutti i violenti. Se le donne sono soprattutto vittime, sia pure di altri uomini, io posso allontanare da me ancora una volta la fatica di riconoscere e confrontarmi con il fatto veramente nuovo, che è la forza e la libertà delle donne. C’è infatti una strana contraddizione nel discorso pubblico prevalente: tanto clamore sulle donne vittime di violenza, quasi completa assenza di voci e ruoli femminili sulla scena della politica, che continua a essere dominata da varie forme di miseria maschile. Inclusa quella – utilizzata da Letta e Alfano – di ricorrere a un po’ di estetica femminile per farsi più belli: non vedete che abbiamo più donne ministre? Non siete contente di quanto facciamo per voi mettendo in galera più velocemente i vostri mariti violenti?
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Penso, infine, che la violenza maschile contro le donne – esercitata domesticamente ogni giorno, come finalmente si comincia a riconoscere – sia solo un aspetto, ma simbolicamente molto rilevante, della più generale violenza politica e bellica che viene esercitata nel mondo, per lo più ancora, come in passato, da uomini. La guerra sembra perdere di senso, ma è sempre di più la nostra normalità globale quotidiana, come ci ricordano i singolari allarmi che in questi giorni vengono dagli Usa.
Le donne non sopportano più i “femminicidi” e la violenza quotidiana contro di loro, e dobbiamo prenderne atto fino in fondo, tutti. Alcune donne – penso al libro “Dio è violent” di Luisa Muraro, e al film di Kathryn Bigelow “Zero Dark Thirty” – ci dicono che la competenza simbolica sulla violenza non è più un fatto esclusivamente maschile. Credo che sia giunto il tempo, per noi uomini, di rendere conto di tutte le forme di violenza di cui, in modi diversi, siamo responsabili.