Si può, nelle poche, asciutte pagine di una straordinaria narrazione, restituire il senso alto, direi assoluto, di uno spostamento simbolico sostanziale avvenuto nel corso dell’ultimo mezzo secolo? Uno spostamento che, nel pensiero delle donne, ha rideclinato la diade singolare/plurale, individuale/collettivo? La risposta semplice è sì. E credo, senza enfasi, che sia un punto di non ritorno, sul piano letterario, ma anche su quello politico, se intendiamo per politica il dare senso al nostro stare al mondo. “Venivamo tutte per mare” di Julie Otsuka (in libreria il 12 gennaio per i tipi di Bollati Boringhieri), ci racconta una storia collettiva lasciando vibrare nelle pagine le infinite varianti individuali, le singolari differenze, del “noi”. Un “noi” che si manifesta in tutta la sua magnifica potenza. Quel “noi” che non discende dall’identificazione di tutte, o molte, in una singolarità esemplare – l’io narrante di tanta letteratura a firma femminile – né dall’appiattimento in un soggetto plurale unidimensionale nel nome di “una” differenza: quella di essere tutte ugualmente donne.
Otsuka ci racconta la storia delle migliaia di ragazze giapponesi che all’inizio del Novecento lasciano le loro isole e le loro case per raggiungere in California gli uomini, sposati per procura, emigrati prima di loro. E la prima scena è quella del viaggio in mare, sulla nave che attraversa il Pacifico. E lì, su quel maleodorante ponte di terza classe, che si forma il “noi” protagonista del suo romanzo – un coro di voci diverse che si accorda sulle note di una contingenza storica che le accomuna.
«Sulla nave eravamo quasi tutte vergini. Avevamo i capelli lunghi e neri e i piedi piatti e larghi, e non eravamo molto alte»: da questo incipit folgorante, il racconto si sgrana come l’ipnotica litania di una liturgia civile, in una sognante voce della memoria partecipe, su immagini che scorrono in bianco e nero: «Alcune di noi erano cresciute solo a pappa di riso […] alcune di noi venivano dalla città […] ma molte di più venivano dalla campagna […] Alcune di noi venivano dalle montagne e non avevano mai visto il mare […] e alcune di noi erano figlie di pescatori che conoscevano il mare da sempre». E tuttavia, “quasi tutte” erano vergini, quelle donne, dai 12 ai 37 anni, che lasciano un mondo noto, pur nella sua ristrettezza, per andare verso un continente enorme, sconfinato (al contrario delle isole) e del tutto sconosciuto. Vergini, perché anche se sono “spose in fotografia” – e solo all’arrivo si accorgeranno di quanto le foto dei loro mariti siano menzognere – gli uomini, per quanto miserabili, non rinunciano a quel “bene” da consumare in esclusiva, almeno in quella prima notte che segue l’attracco della nave, quando la terra non è ancora salda sotto i piedi piatti e larghi infilati negli zoccoletti di legno e i corpi minuti vestiti del chimono bianco delle nozze accuratamente preparato dalle madri rimaste in Giappone. «Quella notte i nostri nuovi mariti ci presero in fretta. Ci presero con calma. Ci presero dolcemente ma con decisione, e senza dire una parola. Sicure che fossimo le vergini promesse dai sensali, ci presero con squisita premura […] Ci presero sul nudo pavimento del Minute Motel. Ci presero in una stanza di second’ordine del Kumamoto Inn, giù in centro. Ci presero nei migliori alberghi di San Francisco dove un giallo potesse mettere piede a quell’epoca. […] Ci presero prima che fossimo pronte, e poi continuammo a sanguinare per tre giorni. Ci presero con i nostri kimono di seta bianca attorcigliati sopra la testa, e noi credemmo di morire. Ci presero con violenza, usando i pugni quando cercavamo di resistere. Ci presero anche se li mordevamo. Ci presero anche se li picchiavamo […] e il mattino dopo appartenevamo a loro».
Si avverte, dietro le meno di tre pagine del capitolo “Prima notte”, la mole di documentazione (registri, lettere, testimonianze) che Otsuka deve aver letto e consultato negli anni della sua ricerca: migliaia di pagine, di voci nomi storie o frammenti, ma la parola letteraria distilla, con quel “noi” corale la comunanza e la differenza, l’esperienza e il ricordo che serba l’essenziale. Così ogni amplesso, in quelle poche pagine, è esperienza singolare, e tuttavia tutte furono “prese” da quegli uomini che non conoscevano e per tutte quella iniziazione sessuale si configura come un passaggio di proprietà.
La differenza del nuovo mondo, della nuova vita, non deve essere tanto evidente se “alcune” sulle nave avevano sognato di essere prime figlie «vendute alla casa delle geishe da nostro padre perché il resto della famiglia potesse sfamarsi […]», un incubo che credevano di essersi lasciate alle spalle salendo sulla nave, ciascuna con il ritratto del proprio sposo serbato con cura «dentro minuscoli medaglioni ovali che portavamo appesi al collo con lunghe catene. Li tenevamo dentro borsette di seta, dentro vecchie lattine di tè, dentro scatole di lacca rossa, e dentro le spesse buste marroni che le quali erano stati spediti dall’America».
L’impatto con i “bianchi” americani è un cozzo devastante contro un muro di ostilità: «Ci insediavamo ai margini delle loro città, quando ce lo consentivano». Le donne acompagnano in silenzio i mariti in viaggi estenuanti che seguono il tempo scandito dal calendario del raccolto: alcune muoiono subito, altre, che avevano lasciato il Giappone per non dover sposare un contadino e ammazzarsi di fatica, ora si trovano a lavorare come bestie nei campi dei bianchi americani, a raccogliere le “loro” fragole, la “loro” uva, a scavare le “loro” patate, a selezionare i “loro” fagiolini. I bianchi sono uomini enormi, su cavalli enormi, con aratri che pesano il doppio, e voglie da soddisfare in quella terra assolata. «Una di noi li incolpava di tutto e li voleva morti. Una di noi li incolpava di tutto e voleva morire. Altre impararono a vivere senza pensare a loro».
Ma quelle che invece finiscono a servire nelle case dei bianchi, hanno a che fare con le signore bianche: «Furono le loro donne a insegnarci le cose da sapere. […] Le amavamo. Le odiavamo. Volevamo essere loro. Così alte, belle e chiare. Le loro membra lunghe e aggraziate. I loro denti bianchi e splendenti. La loro carnagione pallida e luminosa, che nascondevqa tutti i sette difetti del volto […] Ci davano nuovi nomi. Ci chiamavano Helen e Lily. Ci chiamavano Margaret. Ci chiamavano Pearl. […] Si vantavano di noi con le vicine».
Julie Otsuka non ha bisogno di scrivere la parola “razzismo” per restituirci l’enormità del fenomeno – comune agli immigrati provenienti anche da altri paesi, compresi gli italiani – che però per la comunità nippo americana culminerà in quel provvedimento, adottato da F.D. Roosevelt dopo Pearl Harbour, che provocò la dentenzione in campi di concentramento dei giapponesi, “musi gialli” complici del nemico. “La scomparsa” è l’ultimo capitolo del libro e il registro cambia: il “noi” non è più quello delle donne venute per mare decenni prima, è la comunità di una qualsiasi piccola città americana che da un giorno all’altro non li vede più. Quei “bianchi” commentano: «I giapponesi sono scomparsi dalla nostra città. Le loro case sono sprangate e vuote. Le loro cassette della posta cominciano a traboccare […] In una delle loro cucine – quella di Emi Saito – un telefono nero continua a squillare. […] I più turbati dalla scomparsa dei giapponesi sembrano essere i nostri figli. Ci rispondono male più del solito. Si rifiutano di fare i compiti. Sono ansiosi, inquieti». Hanno paura, si fanno domande. Alcuni, non tutti. Perché anche “loro” non sono tutti uguali.