La giornata di sabato a Roma mi ha lasciato un miscuglio di malinconia e rabbia ma anche di conforto. Che tristezza vedere quei giovani – e meno giovani – ostentare il rito della vestizione del “guerriero”, caschi, sciarpe e maschere antigas, calati sui volti come una volta – secoli fa – si abbassava la celata dell’elmo. Ma quei cavalieri antichi affrontavano la tenzone, almeno qualche volta, animati da sentimenti di onore vagamente rispettabili.
I nostri eroi hanno invece affrontato le vetrine di un supermercato e qualche banca. Facendosi scudo delle decine di migliaia di manifestanti pacifici. E abbastanza sicuri che la polizia, asserragliata a poche decine di metri a difendere il territorio della Banca d’Italia e di altri “palazzi del potere”, non sarebbe intervenuta. Certo più tardi sono finalmente giunti al desiderato corpo a corpo con i poliziotti, rischiando di provocare la morte di qualcuno, da una parte e dell’altra. Un’altra delle troppe manifestazioni di miseria maschile (che ci fossero di mezzo anche ragazze non elimina il segno prevalente del fatto) di cui siamo testimoni in quest’epoca.
Per chi, come me e tante e tanti altri, ha vissuto le giornate di Genova nel 2001, è stato il ritorno di un film angosciante.
Il conforto è venuto invece dalla visione di lunghissimi spezzoni di corteo composti in modo molto disordinato da migliaia di singole persone, famiglie, giovani e anziani, uomini e donne, bambini, persone in carrozzella, che testimoniavano lì la loro critica a un mondo che funziona così male, senza bisogno di inalberare nemmeno un cartello. Rappresentanti di se stessi, di un “popolo” molto variegato che da molti mesi ha preso la parola con le manifestazioni delle donne, con i referendum, con le elezioni locali, con l’azione politica dei diecimila comitati, associazioni, siti web.
Di slogan sui cartelli me ne sono segnato – anzi, ho fotografato con l’i-phone – uno soltanto, anzi due: “siamo indignati ma romantici”, e poi “la poesia è anticapitalista”.
Chissà, forse sono un po’ romantico anch’io.
Certamente gli “incappucciati”, l’”onda nera” non hanno letto e condiviso quei cartelli, e nemmeno quello sul ponte di Brooklyn: “Mi importa di te”. No, a loro non importa nulla degli altri, di quelli e quelle che non condividono il loro abbandono alla violenza più stupida e grave.
Naturalmente tra le centinaia, forse migliaia, di persone che hanno partecipato agli scontri, ci sono le figure sociali, le vite concrete, che possono anche spiegare tanta esasperazione. Che bisogna riconoscere, comprendere. Ma non giustificare.
Siamo di fronte a gruppi organizzati che hanno convinzioni politiche, inaccettabili, pericolose. Contro le quali è necessario reagire. Non convincono le parole di un uomo per il quale provo stima e affetto come Valentino Parlato: sul “manifesto” ha scritto che le violenze erano “inevitabili” e che anzi è un “bene” che ci siano state. No, francamente non vedo né l’inevitabilità né alcuna positività, proprio nessuna, di quanto è accaduto.
Parlato dovrebbe spiegare perché allora in tante altre parti del mondo, dove la crisi colpisce non meno che in Italia, non sia accaduto nulla di simile. Chi appoggia o simpatizza con queste pratiche violente non ha capito quella che a me pare la cosa fondamentale della rivolta degli “indignati”: che le azioni linguistiche e simboliche, se toccano la vita delle persone, possono avere nel mondo interconnesso di oggi una immediata risonanza globale. La violenza non è più “giustificata” – ammesso e non concesso che lo fosse – nemmeno dall’obiettivo di “bucare i media”. Le piazze, le agorà, contano se diventano luoghi di produzione e di scambio di conoscenza, di parole nuove. Come sta succedendo e, mi auguro, continuerà a succedere.
Adriano Sofri su La Repubblica ha osservato che la non-violenza ha caratterizzato anche le rivolte nord africane (un caso a parte è la Libia, e in Siria, nonostante la violenza brutale del regime, l’opposizione esita ancora a mettersi sul terreno della lotta armata) e ha ricordato l’influenza del femminismo nel far mutare idea alle generazioni – come la sua, la nostra – dei “lanciatori di sassi”.
Ora naturalmente il rischio è quello visto tante volte: l’avvitamento di una spirale violenza-repressione-violenza, con Di Pietro e Maroni che invocano leggi speciali, e il rischio che si “peschi nel mucchio” per dimostrare l’efficienza dello stato.
Saranno soddisfatti i caporali delle “tute nere”. Non capiscono, o fanno finta di non capire, che sul piano dello scontro fisico e dell’uso della forza non ci sarà mai “vittoria”. E tanto più non ci sarebbe se, per ipotesi assurda, a prevalere fosse davvero la cultura di chi si diverte a sfondare vetrine e giunge al punto di mandare in frantumi una statua della madonna.