“È un ottimo momento per essere donna, oggi, nel XXI secolo”. Così Hillary Clinton, in risposta a una domanda insidiosa di Lucia Annunziata che, intervistandola, l’aveva provocata sul tema: le donne che comandano in guerra. Succede perché è cambiata la guerra (ora per definizione “umanitaria”) o perché sono cambiate le donne? Per me non fa problema comandare in guerra – afferma la Clinton – ma è una “scelta personale”, quasi a dire che per altre donne il problema ci può essere, eccome. E subito aggiunge che comunque per il suo sesso “è un ottimo momento”.
Del resto, il senso comune vede ormai nel ruolo delle donne un misuratore essenziale della qualità di una situazione umana. (Ricordate i Manoscritti del 1844? “In base a questo rapporto [tra uomo e donna, ndr] – scrive il giovane Marx – si può giudicare interamente il grado di civiltà cui l’uomo è giunto”).
E infatti ci si chiede: cosa fanno le donne nelle rivoluzioni arabe? quante donne quel sindaco ha messo in giunta? non sarà meglio – come puntualmente è stato fatto – nominare una donna a capo del Fondo Monetario Internazionale dopo l’“incidente” che ha abbattuto Strauss-Kahn? (E le immagini del brillante economista in manette, barba lunga e sguardo spento, non parlano della meno “ottima” posizione degli uomini in questo momento della storia? Sarà dura per DSK riconquistare l’onore perduto, anche se la magistratura americana ha archiviato le accuse).
Domande che circolano ogni giorno, tanto più in un paese come l’Italia, imbarazzato ma anche sempre più reattivo – specie da parte femminile – per i comportamenti del suo Presidente del Consiglio.
Risposte convincenti è difficile trovarle nell’offerta mediatica quotidiana, meglio cercarle in tre libri usciti, certo non per caso, quasi allo stesso tempo.
Due figure storiche del femminismo italiano, Luisa Muraro e Lea Melandri, hanno affidato a scritti densi e sintetici le loro riflessioni sulla rivoluzione femminile che si è sviluppata tra la fine degli anni ’60 e lungo i ’70, e su quanto essa ha da dire alle inquietudini del mondo attuale. E già i titoli indicano un approccio differente, pur tra i punti di contatto che derivano dalle biografie delle autrici: Non è da tutti. L’indicibile fortuna di nascere donna è il testo di Muraro, Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà quello di Melandri.
Sintomatico della “non ottima” situazione dell’universo maschile è poi il libro di Massimo Recalcati Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, anch’esso un testo breve, che rilancia temi trattati dallo psicanalista lacaniano nel più corposo L’uomo senza inconscio (Cortina 2010).
Il titolo di Muraro, così assertivo, non tragga in inganno: il penultimo capitolo, “Ci sono molti motivi per disperare”, sottolinea la necessità di interrogarsi sugli esiti del cambiamento portato dal movimento delle donne e dopo le speranze aperte con l’89. Il patriarcato non ha più credito, ma il pianeta è abitato da guerre sanguinose, dall’inquinamento e da una lacerante crisi economica. E la risposta: ci vogliono tempi lunghi, è “sensata eppure ingannevole: placa la frustrazione per tutto quello che manca all’appello di una giusta aspettativa, cosa in sé benefica, ma lo fa dando alibi alla voglia di far finta che tutto va bene”.
Anche Melandri, dopo aver ripercorso la storia del movimento delle donne analizzando in contrappunto molti testi della cultura maschile lungo due secoli (da Tocqueville a Freud, a Bourdieu e oltre), si interroga sull’epoca attuale, dove “i capisaldi del potere dei padri … cominciano a declinare, e le passioni stesse perdendo il loro smalto si fanno ‘tristi’, sembra che solo la violenza tragga dal mutamento in atto nuovo vigore”.
Entrambe però rilanciano, da prospettive diverse, l’attualità di un modo di pensare e praticare la politica radicalmente mutato dal femminismo. Per Muraro la relazione madre-figlia è la matrice di un sapere relazionale femminile che dà vita a un continuum tra natura e cultura e rappresenta l’“eccellenza” delle donne che da sempre hanno tenuto insieme il mondo, avendo “di meglio da fare” rispetto all’impegno maschile di gestire il potere e pretendere di riassumere in un universalismo a sesso unico la realtà fatta di uomini e di donne. Melandri concentra invece la sua analisi sul rapporto tra madre e figlio, all’origine di un amore che continua a rovesciarsi in eccessi fusionali, in mancato riconoscimento dell’autonomia femminile, in violenza. Anche per Melandri, però, oggi “la collocazione dell’uomo ha perso i suoi contorni definiti e indiscutibili”. Quando le donne “hanno cominciato a scostarsi dal posto in cui sono state messe” è emerso un retroterra maschile “fatto di fragilità, paure e insicurezza”.
Una situazione complessa, ma aperta a quell’“impensato”, già evocato da Muraro nel precedente Al mercato della felicità. E la cosa ai miei occhi interessante di questi due testi è che la valorizzazione delle dirompenti pratiche politiche inventate dalle donne negli anni ’70 grazie al “partire da sé”, ora dà luogo a una esplicita richiesta di interlocuzione con gli uomini. Perché oggi i temi della vita (il “personale”) sono, sotto gli occhi di tutti, il cuore della politica. Perché è caduta la barriera tra oikos e polis. Perché anche nei luoghi di lavoro la “femminilizzazione” apre nuove dinamiche del conflitto. Per Muraro è necessario un passaggio: gli uomini devono “riconoscere” l’eccellenza femminile, hanno l’occasione di scoprire il “segreto” che “per troppo tempo è mancato al governo di questo mondo”. Il dubbio è: saranno, saremo, capaci di farlo?
Da parte sua Recalcati ribadisce che il problema esiste, e non da oggi. Già negli anni ’30 Lacan osservava che l’ascesa dei totalitarismi in Europa si poteva mettere in relazione col declino del ruolo paterno. E negli anni ’70 collegava l’“evaporazione del padre” al “discorso del capitalista” dominante nella società dei consumi: un contesto simbolico all’insegna del godimento immediato, con un contenuto mortifero. L’assenza della figura paterna – in questa analisi – priva i figli del riferimento normativo indispensabile per la crescita e la produttività, in termini di civiltà, del desiderio.
Recalcati cerca di evitare i rischi di una posizione “nostalgica” verso un irrecuperabile ordine patriarcale, e prova a definire una “riabilitazione etica” della figura paterna come figura “della testimonianza” e non come “Padre del Nome”, evocando alcune “narrazioni” della letteratura e del cinema che danno voce a un nuovo desiderio maschile: il padre che si prende cura del figlio in un mondo tragicamente ostile nel romanzo La strada di Cormac McCarthy, il sacrificio “non violento” dell’operaio americano, a vantaggio della formazione di un giovane immigrato, in Gran Torino di Clint Eastwood. L’impressione, però, è che il tentativo di definire questa funzione di testimonianza senza appesantirla di alcuna nuova rigidità ideale e normativa, alla fine crei un eccesso di vuoto. “Qualunque cosa” – cita ancora da Lacan Recalcati – può esercitare la funzione del padre nell’epoca della sua evaporazione.
Pure, non si arriva a immaginare che questa funzione possa reinventarsi attraverso una modifica profonda della relazione tra padre e madre. Ed è singolare che, constatando la “evaporazione” della figura paterna, ben poco si dica di quanto abbia giocato, culturalmente e umanamente, il fatto che le donne hanno mutato il loro modo di stare nel mondo.