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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Abbasso le banche, ma “mi importa di te”

14 Ottobre 2011
di Letizia Paolozzi

Partito da Montegenevre, come migliaia di pellegrini prima di lui, Marco Marangoni sta percorrendo il cammino di Santiago. Non è un ragazzino. Classe 1965, «lavoratore in nero», sacco a pelo e mini pc alla mano, sta macinando chilometri su chilometri per portare la sua indignazione a Roma, alla manifestazione del 15.

L’indignazione produce un movimento. Ma per quanto tempo? Con quale  “forza, organizzazione, maturità politica” (Hobsbawm)? E poi avrà in testa dei cambiamenti e quali? Produrrà un nuovo agire politico dal momento che la politica somiglia a uno straccio per spolverare, peraltro bucato?

All’inizio è stata la primavera araba. Segue l’estate degli studenti cileni, la “guerra del formaggio fresco” israeliana, l’appuntamento di Puerta del Sol, gli esclusi dalla società dei consumi di Tottenham che hanno razziato i negozi pakistani e i magazzini della Sony. Malcontento, rabbia, indignazione appunto. Che prende strade diverse. Accostarle (operazione condotta da Fausto Bertinotti) non aiuta. Significa non vedere le differenze. Lasciare che un movimento compaia e scompaia, senza attrezzatura per i tempi lunghi. Ma può bastare la soddisfazione di essere lì, sulle prime pagine dei giornali, in televisione per 48 ore?

Il “lavoratore in nero” Marangoni in uno dei cortei di Roma incontrerà uomini e donne, giovani (che per un quarto in Italia sono senza lavoro) e meno giovani. Gente che ce l’ha su con Moody’s e Bankitalia, con l’astrattezza  della rigida disciplina di bilancio europeo, con il rifinanziamento delle banche da parte della banca centrale, con l’idea dell’austerità secondo la letterina di Draghi-Trichet. E con Berlusconi, elementare Watson!

Vero è che nelle sale della City e a Wall Street non si è indebolito il sentimento di impunità, l’evasione continua a macinare denaro, i manager non hanno smesso (anzi, hanno ricominciato) a prendere nuovi bonus e remunerazioni mirabolanti. L’ad Marchionne difendeva i suoi stratosferici emolumenti  rispetto al salario dell’operaio Fiat, dicendo che lui ha un fracasso di responsabilità.

Le cose stanno così: per una parte minuscola ma potente della società questa crisi è una benedizione. E questo, immagino, a molti indignati risulta insopportabile. «Noi siamo il 99 per cento. Ci sbattono fuori dalle nostre case. Ci costringono a scegliere tra comprarci da mangiare e pagare l’affitto. Ci negano un’assistenza sanitaria di qualità. Soffriamo per l’inquinamento. Chi ha un lavoro fa orari massacranti in cambio di un salario basso e zero diritti. L’uno per cento si prende tutto e a noi non resta niente. Il 99 per cento siamo noi!» (Occupy Wall Street).

Se lo scenario è di distruzione (di ricchezza, dell’ambiente, dei legami sociali), finisci per non vedere la differenza tra il crack e lo spettacolo, assai ambito dai media, della vetrina spaccata, dello scontro di piazza tra brutti, sporchi, cattivi e polizia gratuitamente brutale.

Sabato prossimo, il 15 di ottobre probabilmente Marangoni incontrerà indignati scapestrati del tipo “Datemi un fiammifero che voglio dà foco”. Oppure “resistenti attivi” in cerca di visibilità. Imitatori della guerra (Genova dieci anni fa) benché abbiano fatto il servizio civile e pure gli spontaneisti, niente affatto organizzati. O forse no.

Gli altri saranno “vecchietti” e “vecchiette” cresciuti a pane e politica; normali cittadini che portano i figli a scuola, d’estate vanno nel Salento, pregano e li trovi nel volontariato; spezzoni di gay, lgbt, femministe, tutte e tutti a raccomandare assennatezza, tolleranza, rinuncia alla violenza per non isolare il movimento, per evitare la riprovazione dell’opinione pubblica. Viene nostalgia per il servizio d’ordine della Cgil di una volta?

Ma il problema non è tanto quello della violenza o, più importante, della pratica della non-violenza. Il problema è che bisognerebbe avere in testa il cambiamento. Racconta Naomi Klein che un cartello sul ponte di Brooklyn degli indignati recitava: “Mi importa di te”. Non sarà l’inizio di una pratica politica, quella delle relazioni, che alle donne è sempre stata molto cara?

 

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