In Libia si combatte e probabilmente si combatterà ancora a lungo. Obiettivo di grande interesse per l’Europa (e non il contrario, come stupidamente ancora qualcuno afferma) è l’argomento di discussione su tutti i media del mondo. Mentre si spara c’è lo scenario parallelo dietro le quinte: i primi aiuti umanitari, e il lavoro degli sherpa che preparano il terreno per i nuovi affari tra istituzioni e privati. Non ci interessa scrivere di questo, troppi galli cantano e ancora molto indefinita la situazione sul terreno. Ma su una cosa bisogna iniziare ad alzare la voce fin da adesso, e in più sedi istituzionali, oltre che in tutti i mezzi di comunicazione possibili: chiedere il rispetto delle risoluzioni 1325, 1820 e 1888 delle Nazioni Unite. La prima ha undici anni di vita e prevede la partecipazione delle donne ai negoziati di pace e alle operazioni di sicurezza: in Libia non c’è ancora il cessate il fuoco ma come abbiamo detto già si lavora al “dopo”; bene, che anche le donne siedano ai tavoli di discussione, negozino con gli uomini e partecipino a dettare l’agenda internazionale, altrimenti le parole empowerment e mainstreaming di cui diciamo da anni resteranno prive di contenuto. Dettare l’agenda significa anche formare i futuri corpi di pace, lavorare con le forze militari e di polizia locali, fare in modo che nei progetti internazionali di peace keeping le donne abbiano fondi da gestire e incarichi di supervisione e management (soprattutto acqua e cibo, usate come arma di ricatto sessuale dagli uomini che controllano la distribuzione degli aiuti in loco). La seconda (del 2008) e la terza (2009) risoluzione chiedono rispettivamente che ogni paese e parte in conflitto prenda misure contro la violenza sessuale alle donne usata come arma di guerra, rammentando che lo stupro è considerato come il perpetrare di un genocidio, e azioni immediate per proteggere donne e bambini da tutte le forme di violenza sessuale in situazione di conflitto.
Per arrivare a ottemperare le risoluzioni ONU occorre la mobilitazione delle donne in parlamento, delle rappresentanti della società civile, delle giornaliste e dei giornalisti che seguono le cronache in questi giorni. Senza dimenticare i contatti di quelle che già lavorano o hanno lavorato in Libia con le donne del paese.