Dove sta andando l’Europa? A giudicare dalle politiche relative all’immigrazione di molti tra i suoi Stati membri, per consolidare le frontiere identitarie che si definiscono nazionali, sono i migranti che l’Unione ha scelto per bersaglio. Di fronte all’incalzare della mondializzazione, ha perso slancio il progetto europeo che doveva superare il “modello nazionalista”. La vittoria della paura ha significato crescita dei partiti populisti e di estrema destra.
In Olanda, Svizzera, Austria, Ungheria, Serbia, rispetto ai nuovi venuti si è determinato un cambiamento radicale nell’opinione pubblica. L’Altro non è ben accolto. Ovunque, in Francia, Germania, Italia è visto esclusivamente in termini di sfruttamento, di fabbisogno di manodopera. Oppure di esclusione violenta, come a Rosarno.
Da un lato, gli immigrati della fame; dall’altro le società di accoglienza europee che si organizzano con “la politica della fermezza”. Per la sicurezza nazionale bisogna contrastare l’immigrazione. Ne discende che “la persona” nigeriana, senegalese, bosniaca, magiara, non è più un corpo sociale, un individuo prodotto di un mondo sociale e di un habitus collettivo. Anzi, non possiede corpo o codici; non può attingere a un’antropologia culturale della famiglia.
Per questo, lo straniero appare comunque “sospetto”. Si porta addosso “la colpa” di trovarsi in un paese che non è il suo. La costruzione dei muri tra Messico e Stati Uniti; tra Israele e la Palestina; tra India e Pakistan serve a dividere cittadini legittimi da presenze illegittime. Anche i muri simbolici delle normative discriminatorie funzionano per dividere, separare, tenere a distanza.
In effetti è “in piena realizzazione in Europa il modello Schengenland. L’abolizione delle frontiere interne ha proiettato la politica comunitaria verso la scelta della rigida disciplina degli ingressi e del soggiorno e del contrasto dell’immigrazione irregolare” scrive Isabella Peretti che ha curato nella collana sessismoerazzismo (voluta da Lea Melandri, Isabella Peretti, Ambra Pirri, Stefania Vulterini) “Schengenland. Immigrazione: politiche e culture in Europa”, Ediesse Cgil in collaborazione con il Crs.
Nel libro vengono prese in esame alcune politiche relative all’immigrazione e si scopre che al di là delle differenze “nessun valore democratico, nessun principio riguardante i diritti umani, lo Stato di diritto o (tanto meno) la pace, accomuna oggi gli stati membri dell’Unione europea quanto la cosiddetta lotta all’immigrazione clandestina” (Alessandra Sciurba).
Germania, Olanda, Francia, Gran Bretagna, Spagna, Italia: ovunque si indebolisce fino a cancellarsi la relazione tra “noi” (il gruppo sociale e culturale al quale apparteniamo) e “gli altri” (quelli che non ne fanno parte). Nessuna pratica di dialogo. Cadono nel vuoto le parole del nuovo presidente della Repubblica federale di Germania, il democristiano Christian Wulff: “Non dobbiamo tanto chiedere da dove uno viene, quanto piuttosto dove vuole andare. Non dobbiamo cercare ciò che ci divide, ma ciò che ci unisce. Non dobbiamo rimarcare le cose nelle quali siamo avanti rispetto a qualcun altro, ma quelle dove possiamo imparare da qualcuno. Allora nascerà qualche cosa di nuovo e di buono: dalla disciplina tipicamente tedesca e il dribbling turco, dal senso del dovere prussiano e la leggerezza anglosassone, dalla meticolosità degli svevi e lo stile di vita degli italiani e forse tra poco anche dall’arte di vivere della Renania e l’entusiasmo cinese per il sapere…” (Ester Koppel).
Ottiene invece un successo folgorante il libro del banchiere Thilo Sarrazin: gli immigrati non studiano e non lavorano e così instupidiscono e impoveriscono il Paese. Niente più multiculturalismo. La cancelliera Angela Merkel ha dovuto ammettere che il modello tedesco dell’integrazione è fallito.
“Schengenland” non si colloca nel registro delle astrazioni. Al contrario, mostra quale sia il legame tra lo Stato e i soggetti ai quali si rivolgono le politiche di immigrazione. Una pluralità composita e irriducibile a unità di tante storie, portate da donne e uomini diversi. In Italia – ma non solo – c’è una corsa al rialzo delle misure repressive, dovuta “all’affannosa ricerca dell’effettività delle espulsioni e degli allontanamenti” (Angelo Caputo).
Sarebbe necessario un ribaltamento di approccio e di prospettiva giacché “l’immigrazione è innanzitutto cambiamento. Il contrasto e la diffidenza nei confronti degli immigrati è essenzialmente un atteggiamento conservatore; prima ancora che razzismo e xenofobia è avversione o resistenza al cambiamento” (Piero Soldini).
Intanto, cambia la maniera che hanno gli immigrati di pensare al proprio esilio. Oggi i più giovani si ritrovano con una doppia appartenenza, del paese in cui sono cresciuti e di quello nel quale non sono nati e forse non andranno mai. Non solo. Mentre i loro genitori venivano per lavorare, i figli ci vogliono vivere. Vivere in un’Europa che è stata terra di pluralismo. In che modo, si domanda a conclusione “Schengenland”, possiamo evitare che si trasformi in terra della paura?